🛃📐 Righelli e linee immaginarie
Confini e conflitti nella Storia dell’Essere umano - n°III, serie V
Non far caso a me. Io vengo da un altro pianeta. Io ancora vedo orizzonti dove tu disegni confini - Frida Kahlo
Confini e fratricidi: cosa non si fa per una linea immaginaria
Enrico la Forgia, vicedirettore e responsabile newsletter
Due dei principali storici romani, Plutarco e Tito Livio, concordavano in linea di massima sugli eventi che seguirono la fondazione di Roma. In particolare, entrambi convergevano sulle ragioni che portarono all’uccisione di Remo, fratello di Romolo, il fondatore della città, seppur descrivendo il fratricidio in maniera differente.
In Livio (libro I, Ab Urbe Condita), Remo varca il pomerium (solco sacro che nelle popolazioni latine indicava i confini di un insediamento appena fondato) in segno di scherno nei confronti dell’autorità del fratello, venendo poi ucciso da Romolo stesso. In Plutarco (Vita di Romolo), invece, viene riportata la versione in cui l’uccisione di Remo è in realtà un incidente: appena segnato con l’aratro il confine sacro della nuova città, Romolo fece innalzare una bassa, simbolica palizzata (il cosiddetto terminus), ordinando al fidato Celere di uccidere chiunque la oltrepassasse. Remo, non essendo a conoscenza della nuova legge imposta dal fratello, scavalcò la palizzata venendo per questo ucciso da Celere.
La storiografia romana, specialmente quella inerente al mito della fondazione di Roma, è tutt’altro che affidabile. Quello che interessa a noi però, in questo numero di Estera, è l’idea che Remo sia stato ucciso per aver oltrepassato un confine, ovvero una linea tutto sommato immaginaria. Ovviamente i romani non erano l’unica popolazione ad avere così tanto a cuore i confini territoriali. Il concetto di confine era rivestito di sacralità anche in altre culture, come testimoniato dal pomerio etrusco (delimitante i confini di una città), dai kudurru (pietre di confine) in Mesopotamia, o da rami spezzati e intrecciati tra le popolazioni indonesiane (come riportato dall’antropologo Jared Diamond). Una pratica, quella del segnare un confine, praticata anche nel regno animale, come nel caso dei mammiferi che marcano il proprio territorio con secrezioni odorose.
Diverse civiltà, diversi metodi di tracciare confini, ma stessa inviolabilità degli stessi.
Al giorno d’oggi, per confine si intende la linea ideale che delimita il territorio di uno Stato - o la proprietà privata di un determinato individuo (che è giusto specificare, non sarà argomento di questo numero di Estera) -, riconosciuta dagli Stati limitrofi, e che segna l’inizio e la fine della sovranità (espresso dal monopolio della forza e tutto ciò che ne consegue) dell’entità statale in questione.
Nel diritto internazionale, esistono due dottrine principali per la delimitazione dei confini tra Stati. Uno prevede l’adozione di confini sulla base di eventuali barriere naturali che interrompono la continuità geografica di un territorio. L’altro, invece, prevede la delimitazione dei confini sulla base dell’unità degli individui appartenenti alla nazionalità/comunità rappresentata dallo Stato.
Nonostante si tenda a definire la prima dottrina come “naturale” (confini che seguono fiumi, laghi, catene montuose eccetera) e la seconda come “artificiale” (confini stabiliti a tavolino come nel caso degli Stati africani), in natura non esiste una vera e propria discontinuità e pertanto tutti i confini sono da considerare dei costrutti politici, dal momento che il loro unico effetto è “immaginario”.
Due Stati e due comunità nazionali limitrofe non sono separate di netto, né facilmente distinguibili; i confini immaginati, tracciati e riconosciuti reciprocamente segnano inizio e fine della validità delle leggi di uno Stato e dell’altro e vengono interiorizzati dall’individuo. Nonostante ciò, è sempre bene ricordare come comunità separate da frontiere continuano nelle loro relazioni transnazionali, così come geografi e sociologi insistono sul riconoscere i confini come linee di contatto e quindi luoghi che non solo comportano conflitti ma che uniscono.
In questo numero dedicato a conflitti e confini (tra Stati) vogliamo, da un lato, ricordare come tutti i confini siano appunto artificiali, inesistenti, finzioni giuridiche senza alcun riscontro nel mondo naturale; dall’altro, sottolineare l’assurdità del concetto stesso di confine, raccontandovi quelle che sono le discussioni di confine più insensate della storia. E portando alla vostra attenzione le atrocità, sotto forme di guerre e crimini contro l’umanità, commesse in nome di queste linee immaginarie.
Sì, perché nonostante l’articolo 2, paragrafo 4 della Carta delle Nazioni Unite affermi che “i membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall'uso della forza, sia contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite.” i confini sono così artificiali che sono mobili. Possono essere ritrattati, ridefiniti, cambiati, con la diplomazia o - molto più spesso - con la forza. In nome dei confini si viene uccisi - o nel caso dei migranti lasciati morire. L’assurdo continua.
Le tappe del numero:
🐷 “Righelli e linee immaginarie”, ultimo numero di Estera prima della pausa estiva (agosto), si apre con l’ironico contributo di Viola Pacini, che vi racconta quello che con tutta probabilità è il conflitto di frontiera più comico della storia: un maiale, un campo di patate e una linea immaginaria non ancora tracciata sono gli ingredienti inaspettati di un quasi scontro tra potenze internazionali.
🌊 Spesso, nel nostro immaginario, il mare figura come sinonimo di libertà… un luogo affascinante tanto quanto pericoloso dove ogni essere umano risponde unicamente alle leggi di Dio o della natura. Gli Stati però potrebbero non essere d’accordo. Viola Pacini - onnipresente in questo numero - dedica un contributo ai confini marittimi e alla loro storia, dall’idea alla messa in pratica.
🌍 Paese che vai confini contesi che trovi. Come redazione abbiamo deciso di portare alla vostra attenzione due conflitti/dispute di confine al limite dell’assurdo, sperando che vi risultino sconosciuti tanto quanto curiosi. Una breve lettura da ombrellone per riflettere sul concetto di confine e tutto ciò che comporta nelle dinamiche tra Stati. Buona lettura e non dimenticate di segnalarci le vostre tensioni di frontiera preferite!
🗂️ Come testata, nel tempo abbiamo coperto diversi conflitti da vari punti di vista, soprattutto inerenti a regioni e confini contesi o al concetto in sé di frontiera. In questo piccolo archivio abbiamo deciso di rilanciare alcuni degli approfondimenti che abbiamo scritto negli ultimi anni.
⛱️ Estera va in vacanza! Dopo sette, intensi mesi di newsletter, gli spiegoni e le spiegone che hanno collaborato al progetto hanno deciso di concedersi una breve tregua per il mese di agosto. Tranquilli… a settembre torneremo più entusiast* di prima e voi potrete tornare a leggerci!
Buone vacanze,
Lo staff di Estera
Stabilire confini per salvare maiale e patate
Viola Pacini, caporedattrice MENA
Spesso tendiamo a vedere i confini degli Stati nazionali come qualcosa di immutabile e quasi sacrosanto; la sola idea di modificarli è praticamente una blasfemia. Inoltre, le frontiere devono essere ben definite. Fu proprio a causa di una linea di demarcazione non chiara che nel 1859 gli Stati Uniti e la Gran Bretagna si ritrovarono in un quasi-conflitto dalle tinte tragicomiche: la cosiddetta Guerra del maiale.
Al termine della guerra d’indipendenza, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna dovettero decidere dove tracciare la frontiera tra il nuovo Paese e il Canada, all’epoca possedimento britannico. Naturalmente le popolazioni indigene non vennero tenute in considerazione durante questo processo di spartizione: la questione riguardava esclusivamente i “bianchi”.
Il processo non fu semplice e richiese diversi decenni. Con l’Oregon Boundary Treaty del 1846 la questione sembrava essersi conclusa. Tuttavia, il testo non precisava come sarebbe stato diviso lo stretto tra lo Stato di Washington (statunitense) e l’isola di Vancouver (britannica). Il trattato stabiliva infatti che il confine passasse nel mezzo dello stretto di Juan de Fuca. Ma come spartire gli innumerevoli isolotti presenti nello stretto? Dove si trovava esattamente la linea di demarcazione?
Non riuscendo a trovare un accordo, entrambi i Paesi lasciarono che i propri cittadini occupassero contemporaneamente le isole, in particolare la fertile San Juan, che presto sarebbe diventata il pomo della discordia.
Tra dispute su chi doveva ricevere tasse e il conflitto tra pastori britannici e agricoltori statunitensi, il clima a San Juan si fece talmente teso che sarebbe bastato pochissimo per far scendere in campo i rispettivi eserciti. Bastarono infatti un campo di patate, un maiale incustodito e un contadino dal grilletto facile.
Il 15 giugno del 1859 il contadino statunitense Lyman Cutler sparò a un maiale di proprietà del magistrato britannico Charles Griffin, uccidendolo. L’animale era stato colto in flagrante mentre distruggeva il campo di patate di Cutler; sembra che questa non fosse la prima incursione in quello specifico orto e, nonostante le lamentele da parte del coltivatore, Griffin non aveva fatto nulla per limitare i danni causati dal maiale. Quello che accadde subito dopo l’uccisione del vandalo suino è incerto.
Secondo alcune versioni, Cutler andò subito a confessare, offrendo un compenso che venne rifiutato. In altre fonti il proprietario del maiale avrebbe chiesto un indennizzo per l’abbattimento, il quale venne negato dal colpevole. Indipendentemente da ciò, Griffin minacciò di arrestare Cutler, il quale andò a denunciare alle autorità locali l’intenzione da parte di un britannico di fare del male a un cittadino degli Stati Uniti su suolo statunitense.
Gli Stati Uniti inviarono quindi truppe che si accamparono su un territorio conteso, un’azione che i britannici interpretarono come un’invasione. Le autorità di Vancouver mobilitarono quindi la Marina militare, la più potente del mondo all’epoca, e le navi britanniche si posizionarono in modo da minacciare l’accampamento nemico. Si venne quindi a creare uno stallo: i soldati britannici avevano l’ordine di sbarcare, ma se lo avessero fatto gli statunitensi avrebbero aperto il fuoco e dato inizio a una guerra.
Il capitano britannico Geoffrey Hornby decise però di non sbarcare: non avrebbe sicuramente dato inizio a un conflitto per la disputa su un maiale e delle patate. Questo dette tempo alla notizia di raggiungere i governi centrali di Londra e Washington. Il 7 novembre 1859 il generale Winfield Scott, comandante supremo delle forze statunitensi, arrivò a San Juan; soprannominato “il Grande pacificatore”, questi si era già distinto in precedenza per le sue grandi capacità di negoziazione.
Scott riuscì a convincere entrambe le parti a un’occupazione congiunta dell’isola. La questione venne risolta pacificamente nell’ottobre 1872, quando il kaiser tedesco venne nominato arbitro e si decise che l’isola apparteneva agli Stati Uniti.
La Guerra del maiale si risolse quindi in un nulla di fatto e l’unica vittima fu il suino mangiatore di patate. Il casus belli è comico e ricorda più una baruffa in qualche zona rurale che non un conflitto tra due Stati. In realtà, è l’ennesima prova della necessità degli Stati-nazione di avere frontiere perfettamente definite e inviolabili. Forse stabilire dove una nazione finisce e ne inizia un’altra infonde un senso di sicurezza: da la possibilità ai cittadini di ciascuna delle due identità di capire fin dove l’autorità alla quale rispondono può agire e quindi quali tutele sono loro garantite. La mancanza di un confine definito può essere invece motivo di conflitto, anche se non ci sono in gioco risorse preziose. La semplice difesa dell’onore della propria nazione, alla quale non devono essere negati neppure pochi chilometri quadrati di terra, è un motivo più che sufficiente per scendere in battaglia.
Tracciabile l’intangibile: la delimitazione dell’oceano
Viola Pacini, caporedattrice MENA
Gli spazi e il modo in cui li viviamo sono spesso frutto di costruzioni sociali mutabili nel tempo.
La necessità dei moderni Stati di includere tutto all’interno di confini con una giurisdizione ben definita ha portato a imporre limiti tangibili anche su qualcosa di sfuggente e incontrollabile come l’oceano. Per sua natura, il mare aperto non è l’habitat naturale degli esseri umani e non può ospitare insediamenti stabili autosufficienti. Nonostante ciò, ha da sempre avuto un grande potenziale sia come fonte di risorse che come mezzo di trasporto.
Nel corso della storia, ciascuna società ha sviluppato una propria concezione dello spazio oceanico, a seconda del proprio stile di vita, del tipo di mare che aveva di fronte e delle abilità di navigazione. Con alcune eccezioni che riguardano prevalentemente i popoli della Micronesia, generalmente in epoca pre-moderna (ossia prima della violenta espansione oltreoceano degli europei) il mare aperto non era considerato però una superficie che poteva essere reclamata come proprietà territoriale. Per esempio, secondo l’ordinamento dell’antica Roma, che aveva l’intero bacino del Mediterraneo sotto il proprio controllo, esercitava su di esso l’imperium, ossia il diritto a controllarlo per salvaguardare il traffico marittimo e l’estrazione di risorse, ma non ne aveva il dominium, ossia non poteva possederlo.
L’idea dell’oceano come spazio controllabile ma indomabile iniziò a essere messa in discussione con i grandi viaggi navali europei. Sebbene la storia più eurocentrica esalti queste spedizioni come qualcosa di rivoluzionario, le tratte transoceaniche non erano una novità per le società dell’Oceano Indiano: queste ultime utilizzavano le correnti monsoniche per viaggiare e commerciale via nave da secoli, tanto che all’inizio del XV secolo, decenni prima del viaggio di Cristoforo Colombo, l’ammiraglio cinese Zheng He condusse la flotta Ming fino alle coste dell’odierno Kenya. I popoli afro-asiatici da un lato e gli europei dall’altro avevano però due modi diversi di concepire una potenza marittima. Per i primi, il più forte era quello che riusciva a stipulare migliori accordi commerciali, aveva agenti nei porti stranieri e attirava mercanti; per i secondi il vincente era quello che sparava e piantava la propria bandiera per primo. Fu proprio da questi ultimi che, nel corso dei secoli, si creò un dibattito intellettuale e politico che portò alla moderna gestione del mare.
I primi a sentire il bisogno di dividere l’oceano in sfere di controllo furono Spagna e Portogallo già sul finire del XV secolo. Tramite una serie di trattati e bolle papali, l’Oceano Atlantico venne diviso in due parti, all’interno del quale ciascun regno avrebbe potuto esercitare il proprio potere escludendo l’altro: Madrid prese il lato occidentale, Lisbona quello orientale.
Tuttavia, il mare aperto rimase ancora per qualche secolo una superficie da attraversare per andare da un luogo all’altro; le potenze europee erano interessate alle grandi distese d’acqua principalmente per proteggere le rotte commerciali.
La concezione attuale di acque territoriali come proprietà di un Paese e del mare aperto come di un’arena internazionale con codici di comportamento ben precisi è nata a partire dalla fine del XVIII secolo, durante l’ascesa del capitalismo industriale. I miglioramenti nella tecnologia navale hanno reso i viaggi marittimi sempre più rapidi ed economici, affollando le rotte oceaniche; nel frattempo, si stava sviluppando il concetto di Stato-nazione, un’invenzione europea che successivamente si sarebbe diffusa ovunque grazie al colonialismo.
Così, un trattato dopo l’altro, mentre il sistema capitalistico sollecitava lo sviluppo tecnologico, abbiamo trasformato quello che probabilmente è l’ambiente più ostile all’uomo in una superficie amministrabile e controllabile. L’oceano è stato gradualmente territorializzato; quelle porzioni che non appartengono alle acque territoriali o alla zona economica esclusiva di un determinato Paese sono comunque gestite da un regime di diritto internazionale.
Tuttavia, in ambito artistico e letterario l’oceano è riuscito a mantenere la propria posizione di non-luogo selvaggio e indomabile. Questa concezione è presente da secoli e ha raggiunto il proprio apice con le opere di scrittori quali Jules Verne e Herman Melville. In questo contesto, il mare è un luogo fuori dai limiti imposti dalla società e la nave che vi viaggia sopra un piccolo mondo a parte con le proprie regole. Oggi queste sono naturalmente immagini di pura fantasia. Ma è possibile che rispondano a un bisogno inconscio di rigettare, almeno per un po’, le intricate reti di confini che ci siamo imposti nel corso dei secoli?
Ai confini dell’assurdo: due storie di frontiera del mondo contemporaneo
Lo staff di Estera
Se dovessimo pensare a un confine conflittuale, la frontiera tra Stati Uniti e Canada sarebbe probabilmente l’ultimo posto che ci verrebbe in mente. Quello che è generalmente considerato il “confine più pacifico del mondo” è infatti luogo di ben cinque dispute di confine tra i due Paesi. Una in particolare va menzionata visti gli elementi in gioco. Si tratta di quella che riguarda le acque territoriali del Mare di Beaufort, una sezione del Mare Glaciale Artico, a nord dell’Alaska (Stati Uniti), dello Yukon (Canada) e a ovest dell’arcipelago artico canadese (Territori del Nord-Ovest). Qui, infatti, i due Paesi hanno ancora in corso la discussione sulle rispettive acque territoriali in un’area di circa 21 mila km2. Se fino a qualche decennio fa la zona risultava di scarso interesse per entrambi i governi, gli effetti del cambiamento climatico hanno riacceso la disputa: il ritiro dei ghiacciai rende accessibili importanti giacimenti petroliferi solitamente ricoperti di ghiaccio gran parte dell’anno. Per la cronaca, si tratta di quantità di gas e petrolio sufficienti a soddisfare la domanda interna del Canada per diversi anni… in una qualsiasi altra parte del mondo sarebbe considerata un’ottima ragione per scendere in guerra.
Trovate gli altri quattro conflitti di confine tra USA e Canada in questo articolo (in inglese).
La Somalia è un Paese presente nelle cronache nazionali unicamente perché teatro di una guerra civile che va avanti dal 1991. Tra le tensioni che scuotono il Paese da decenni - dando vita a veri e propri scontri armati - figura anche il conflitto tra il Somaliland, Stato non riconosciuto ma de facto indipendente, e il Puntland, uno degli Stati ufficiali che compongono la Somalia, teoricamente una federazione. L’oggetto della disputa, che a fasi alterne si riaccende provocando duri scontri armati, sono i territori di Sool, Sanaag e Cayn, reclamati da entrambe le fazioni per ragioni diverse. Da un lato, il Somaliland si è dichiarato indipendente dal resto della Somalia nel 1991, al termine del mandato britannico sul territorio, col quale si dichiara in continuità, reclamando dunque le tre aree contese in quanto precedentemente parte del Somaliland britannico. Dall’altro lato, invece, le autorità del Puntland reclamano Sool, Sanaag e Cayn in virtù dei legami tribali che collega la gran parte degli abitanti di tali aree al clan Darod, il principale del Puntland. Continuità storico-geografica con confini tracciati artificialmente contro la necessità di creare entità statali etnicamente omogenee. Ad aggiungere un elemento di assurdità ai periodici conflitti armati tra le due parti è il fatto che il governo centrale di Mogadiscio non sostiene nessuno dei contendenti, non riconoscendo il Somaliland come autorità indipendente né le pretese del Puntland - suo Stato federato - nell’allargare i propri confini.
🗃️ Archivio spiegonico:
Redazione Lo Spiegone
Per anni Israele e Libano sono stati protagonisti di un contenzioso inerente ai reciproci confini marittimi. In “L’accordo sui confini marittimi tra Israele e Libano: quali implicazioni?” abbiamo ripercorso la storia della disputa.
Spesso sentiamo parlare di Unione europea e frontiere in relazione alle migrazioni. In “Riforma del Codice delle frontiere Schengen: sfide e opportunità per l’Ue” offriamo una panoramica degli ultimi sviluppi a livello comunitario. Ne “Il sistema di gestione delle frontiere esterne dell’UE: l’Agenzia Frontex” parliamo invece di Frontex, l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri.
Tra il 2020 e il 2021 il confine tra India e Cina è stato luogo di alcune schermaglie tra i due eserciti. Nel nostro “Ricorda 1962: la guerra tra Cina e India” analizziamo le origini del conflitto tra i due giganti asiatici.
Nel nostro progetto “La linea curva” trovato una serie di approfondimenti sui confini e le dinamiche frontaliere tra Russia, Cina e Mongolia da diverse prospettive.