🤮 Che schifo il Risiko
Di guerre, di cittadinanze e di quella brutta invenzione che sono gli Stati-nazione
La nazione è una comunità politica immaginata. È immaginata perché i membri di una nazione, anche la più piccola, non conosceranno mai la maggior parte dei loro connazionali, [...] eppure nella mente di ciascuno vive l'immagine della loro comunione. La nazione è immaginata perché, a prescindere dalla disuguaglianza e dallo sfruttamento che possono prevalere in ogni nazione, è concepita come un profondo cameratismo orizzontale. Ed è questo cameratismo che ha reso possibile, negli ultimi due secoli, che milioni di persone fossero disposte a morire per quella stessa, limitata, immaginazione.
B. Anderson - Comunità Immaginate
Stati, nazioni e Stati-nazione: conflitto e identità
Enrico la Forgia, vicedirettore e responsabile newsletter
La mattina del 24 febbraio 2022, il mondo occidentale si è svegliato accompagnato dall’incubo della guerra.
Un conflitto armato “tradizionale”, combattuto da eserciti regolari, iniziava con le forze russe al di qua dei confini internazionalmente riconosciuti dell’Ucraina, una dinamica da Risiko tornata di moda nel nostro continente.
Il casus belli? La sicurezza nazionale dello Stato russo - messa a repentaglio dall’espansione a est della Nato - e la difesa della nazione russa in Ucraina, una minoranza minacciata dalle politiche assimilazioniste di Kyiv. Quest’ultima, da parte sua, ha lamentato le ingerenze di Mosca nei propri affari di Stato e la minaccia all’integrità del proprio territorio nazionale, rappresentata dal Cremlino.
Gran parte dei giornalisti nostrani, indipendentemente da testata e orientamento politico, si sono stracciati le vesti discutendo se fossimo dinanzi al primo conflitto armato in Europa dalla Seconda guerra mondiale o meno.
La risposta, ovviamente, era ben più complessa di un semplice “sì o no”. Era infatti un “nì”: non era il primo conflitto armato combattuto in Europa (vedasi la guerra civile in Jugoslavia); ma era il primo conflitto armato combattuto tra Stati sovrani europei.
Neanche il tempo di perdere interesse nelle vite di russi e ucraini che ci siamo ritrovati davanti a un Israele che, ad oggi, ha reclamato le vite di più di 25 mila palestinesi. Il casus belli? La minaccia rappresentata da Hamas per lo Stato e la nazione ebraica, concretizzatasi con l’efferato attacco del 7 ottobre.
L’evento, oltre ai massacri, ha “stimolato” il dialogo sulla questione palestinese: due Stati per due nazioni? Uno Stato per due nazioni? Uno Stato a una nazione e il trasferimento forzato all’altra?
Guerra russo-ucraina e guerra (se così si può chiamare) israelo-palestinese. Due conflitti armati. Diverse dinamiche. Alcuni tratti in comune.
In entrambi i casi, la ragione e il torto e tutte le sfumature intermedie dipendono dalle lenti adottate. Spesso si finisce nella trappola di propagande diverse di Stati, di nazioni e di Stati-nazione diversi.
Tutto ciò però non deve sembrare anormale.
Conflitti armati oggettivamente giusti difficilmente esistono. La stessa idea di conflitto, qui inteso non solo come guerra, è legata all’idea di Stato e del suo intrecciarsi con la nazione. O almeno così è stato negli ultimi due secoli circa.
L’interesse di una nazione perseguito da uno Stato. Uno Stato creato per difendere una nazione. Nazioni divise tra più Stati.
Si tratta di una problematica a cui non troverete soluzioni in questo numero di “Estera”, perché il nostro obiettivo non è dare risposte, ma di riflettere insieme sul sistema in cui viviamo e sulle sue forme più conflittuali, violente e repressive, che siano belliche, culturali o sociali.
Certo, il fatto che la Russia sia membro permanente del Consiglio di Sicurezza ONU ha impallato l’intero sistema-mondo e quindi è sui generis.
Certo, uno Stato come Israele è intrinsecamente etnocratico e la pulizia etnica dei palestinesi è la sua naturale espressione.
Ma non si tratta di eccezioni, in nessuno dei due casi.
Se si pensa ai conflitti (armati, culturali, politici o sociali) recenti, si può notare come è l’intero sistema di Stati-nazione che ci circonda a racchiudere in sé dinamiche violente ed esclusiviste.
Ne sono un esempio le guerre menzionate ma anche quella armeno-azera, la storia stessa di alcuni Paesi teatro di passati genocidi e attuali ingiustizie o il razzismo istituzionalizzato che subiscono i cittadini europei non-bianchi. Una serie di eventi che sembra descrivere un mondo alla Risiko, con armate - e popoli - cromaticamente omogenee pronte a combattersi per territori ben limitati da confini.
In questo numero di Estera, ci proponiamo di affrontare il ruolo di Stati, nazioni e Stati-nazione nei conflitti, che siano armati o meno. In quanto lettore o lettrice, troverai nei prossimi contributi una serie di analisi, concetti, casi studio e consigli per approfondire l’argomento nella speranza possano esserti utili nello sviluppare un pensiero sulla tematica.
Dal canto mio posso solo sperare che già in partenza non ti piaccia troppo l’idea che Stato e nazione debbano coincidere, anche a scapito dell’esistenza di altre nazioni - o “comunità immaginate” come diceva Benedict Anderson.
In caso contrario, l’email di Estera (estera@lospiegone.com) è pronta ad accogliere di tutto: riflessioni, spunti, critiche o tutte e tre le cose insieme, sperando che un eventuale conflitto sia l'ennesima occasione di crescita per tutti, noi e voi.
Le tappe del numero:
Riallacciandosi ad alcuni dei temi sollevati nell’introduzione, il nostro caporedattore Strategia & Sicurezza Francesco la Forgia offre una propria analisi del conflitto in Ucraina, in particolare sull’intreccio tra nazionalismo, propaganda e mobilitazione.
La nostra caporedattrice MENA, Viola Pacini, analizza il processo che ha portato alla nascita di Israele, inserendolo nella prospettiva ottocentesca dello Stato-nazione e del colonialismo bianco.
A seguire, il direttore Alberto Pedrielli e il vicedirettore Enrico la Forgia, entrano nel dettaglio di due processi tipici dello Stato-nazione: la costruzione di una memoria condivisa - applicata all’Australia, in relazione al sacrificio della Prima guerra mondiale - e l’individuazione dell’altro (e la sua conseguente esclusione) sulla base di valori condivisi da una nazione - applicato alla Francia e alla sua popolazione musulmana e/o non bianca.
🏛️🌎 Infine, la caporedattrice Nord America Laura Santilli chiude il secondo numero di Estera con un contributo narrativo che ci mostra con gli occhi da insider di un lavoratore le contraddizioni e le delusioni - ma anche le speranze - interne alle Nazioni Unite.
Guerra Russo-ucraina: cittadini in guerra
Francesco la Forgia, caporedattore Strategia & Sicurezza
Le opinioni espresse nel seguente contributo sono attribuibili esclusivamente all’autore
È vero, l’invasione Russa dell’Ucraina del 24 febbraio del 2022 ha segnato l’inizio della prima guerra combattuta tra Stati sovrani in Europa sin dal 1945. Ma non è solo questo fattore a dover destare il nostro interesse di studiosi. Ciò che sta accadendo ora in Ucraina costituisce, in particolare, il primo conflitto europeo combattuto tra due Paesi sin dalla Seconda Guerra mondiale che ne coinvolge totalmente (come nel caso dell’Ucraina) o in parte (come nel caso della Russia) la popolazione in quanto cittadini parte di uno Stato.
Di fatto, non sono solamente i soldati professionisti a prender parte nei combattimenti, ma, sia Mosca che Kyiv, hanno dovuto ricorrere alla coscrizione della popolazione civile e al richiamo dei riservisti. Persone che non avevano mai avuto a che fare con le armi si sono trovate a dover combattere e morire per il proprio Paese: una situazione quasi surreale per noi che siamo abituati a vedere le guerre come dei fenomeni distanti e con le quali hanno di solito a che fare solamente i soldati di professione.
L’ultimo Paese occidentale ad aver richiesto un tale sacrificio ai propri cittadini sono stati gli USA durante la guerra del Vietnam. Migliaia di giovani furono chiamati alle armi e mandati a combattere in un luogo lontano con il vago obiettivo di arginare a tutti i costi l’espansione del comunismo in Asia, fenomeno che allora sembrava inarrestabile.
Gli effetti di tale conflitto furono disastrosi per gli USA, sia in termini di vite umane, sia per il suo prestigio di superpotenza, e all’indomani dei trattati di pace tra Washington e Hanoi, firmati a Parigi nel 1973, il quantitativo di vite umane sacrificate sull’altare della lotta al comunismo era ingiustificabile agli occhi dell’opinione pubblica.
Anche durante la guerra delle Falkland nel 1982, l’Argentina ricorse alla coscrizione di 10.000 cittadini per fronteggiare l’esercito professionale britannico. Il conflitto durò a malapena 10 settimane, e il costo in vite umane non è neanche lontanamente paragonabile a quello della guerra del Vietnam, ma delle 900 vittime provocate dal conflitto, la maggior parte erano soldati argentini.
L’altissimo costo politico della coscrizione ha portato molti Paesi a evitarne l’utilizzo quasi a tutti i costi. È stato infatti un errore di calcolo del Cremlino a portare alla necessità di dover ricorrere a tale opzione. Agli occhi di Mosca il conflitto sarebbe dovuto durare poche settimane, qualche mese al massimo. Quella che doveva essere un’operazione speciale condotta dai reparti più preparati dell’esercito russo, si è trasformata in un pantano, un carnaio dove ora anche i coscritti sono mandati a morire.
Tutto ciò è stato accompagnato dalla mobilitazione di ingenti risorse politiche ed economiche all’interno di entrambi Paesi, ma anche dall’inferocirsi della propaganda nazionalista da ambo le parti.
L’invasione russa del proprio vicino ha riportato sul suolo europeo la propaganda di guerra, la barbarizzazione del nemico in tutta la sua volgarità, la disumanizzazione dell’altro. Che ciò avvenga sui social media o tramite l’affissione di manifesti sui muri delle città come si faceva un tempo poco importa; è solo una questione di mezzi. In questo modo la guerra assume il carattere di uno sforzo collettivo, che abbraccia la società nel suo intero e dove non c’è spazio per il dissenso.
Ma c’è dell’altro! Nel caso dell’Ucraina, il conflitto in corso entra anche a far parte del suo processo di etnogenesi, ossia quel percorso di auto-identificazione che porta un popolo a definirsi come gruppo etnico. Una guerra, quindi, non solo nazionale, ma anche d’indipendenza se vogliamo, volta a tranciare definitivamente i legami con Mosca e a far rivolgere Kyiv una volta per tutte verso l’occidente.
La guerra è ancora lontana dalla sua conclusione, ma che finisca con la vittoria di una delle due parti, o con il congelamento del conflitto, sui libri di storia ucraini, che piaccia o meno, la guerra verrà raccontata in questi termini: noi contro di loro; noi che difendiamo il Paese contro l’invasore russo; noi che combattiamo per la nostra indipendenza. Se prima poteva esserci qualche dubbio sulle differenze etniche tra russi e ucraini, questa guerra ha ormai sancito la separazione tra le due nazioni. Che Mosca lo voglia o meno, non si potrà più tornare indietro, poiché Kyiv ha trovato il suo “altro” nella Russia.
L’utopia dello Stato-nazione in terra colonizzata
Viola Pacini, caporedattrice MENA
Diversi esempi nella Storia hanno dimostrato come l’idea di Stato nazionale costituito da una comunità perfettamente omogenea dal punto di vista culturale, linguistico, etnico e religioso sia sostanzialmente un’utopia.
Eppure in nome di questo miraggio sono stati compiuti centinaia, se non migliaia, di massacri e genocidi. Ma cosa succede se al progetto di creazione di un’entità del genere si sovrappone il progetto coloniale di un gruppo diasporico?
Partiamo dall’Impero ottomano, un dominio multiculturale e multireligioso, che per buona parte della sua storia è riuscito a gestire le differenze tra i propri sudditi.
La tolleranza verso gli “altri” esisteva nel mondo musulmano già da prima dell’Impero ottomano, ma la dinastia di Osman ha perfezionato questa convivenza. Pare che i cristiani ortodossi delle isole egee preferissero di gran lunga il dominio turco a quello cattolico e mentre in Europa si perseguitavano eretici e moriscos, la Sublime porta accoglieva ebrei e musulmani fuggiti dalla Penisola iberica a seguito della Reconquista.
Il Medio Oriente non era quindi nuovo alla coesistenza e all’accoglienza degli “altri”. Ma a partire dalla fine del XIX secolo iniziarono a convergere in Palestina i sionisti europei, il cui progetto migratorio non prevedeva l’integrazione in una realtà già esistente, ma la creazione di un nuovo Stato-nazione basato su una precisa comunità, quella ebraica.
Come è ben noto, gli ebrei sono stati perseguitati per secoli in tutta Europa. L’affermarsi dello Stato-nazione ha fornito un ulteriore pretesto per tormentarli e massacrarli in quanto “diversi”. È naturale che le varie comunità ebraiche volessero porre fine a tali persecuzioni e vivere in sicurezza.
Ma la soluzione proposta dal sionismo è stata quella di spostare il problema sulle spalle di un altro popolo, creando uno Stato-nazione appositamente per gli ebrei e ponendo implicitamente tutti gli altri in posizione subordinata.
Ovviamente i palestinesi hanno respinto questo progetto: non perché non volessero dividere il territorio con gli ebrei (di nuovo, non era una novità in Medio Oriente), ma perché trovavano inaccettabile il fatto di dover cedere la propria terra in nome della creazione di un’entità aliena.
Ancora oggi, sia in Israele che all’estero, i sostenitori del sionismo affermano che la Palestina appartenga di diritto al popolo ebraico. Questa argomentazioni ha due basi principali: il mito fondatore della comunità e il senso di superiorità coloniale.
Benedict Anderson sottolinea come la presenza di un mito fondatore comune sia alla base di una nazione (e di uno Stato-nazione), mentre Gwyn Campbell ci insegna che l’idea di una patria ingiustamente perduta alla quale tornare è uno dei tratti distintivi delle diaspore. Il punto chiave è la percezione: non importa che il gruppo in questione provenga interamente dal territorio prescelto e abbia le esatte origini indicate dal proprio mito fondatore.
Essendo basate sull’Antico Testamento, le rivendicazioni sioniste sulla “Terra promessa” non hanno consistenza storica. Come tutti gli altri testi religiosi, i racconti biblici, sia canonici che apocrifi, sono documenti fondamentali a livello culturale, ma per la loro stessa natura non sono fonti storiche.
Il secondo punto alla base delle rivendicazioni israeliane è il senso di superiorità coloniale: sebbene lo Stato di Israele sia stato fondato ufficialmente nel 1948, il progetto sionista affonda le proprie radici nel XIX secolo. All’epoca l’Europa aveva in mano quasi tutta l’Africa e l’Asia; l’appropriazione territoriale aveva contribuito allo sviluppo di un senso di superiorità “bianco”. In quanto europei, i sionisti si ritenevano quindi legittimati a fare ciò che desideravano delle nazioni “inferiori”.
Naturalmente, con l’arrivo nel XIX secolo del concetto di Stato-nazione in Medio Oriente, per imposizione esterna o per applicazione acritica da parte di leader locali che volevano a tutti i costi emulare quell’Europa percepita come potente e all’avanguardia, ha causato lo spargimento di molto altro sangue.
Ciò che rende il caso israeliano particolare è la sua natura: non si tratta di uno Stato formato da qualcuno già presente su un territorio, ma da esterni che hanno legittimato le proprie rivendicazioni su fonti storicamente nulle e sul senso di superiorità tipico del colonialismo.
L’Anzac Day e le vene dell’immaginario patriottico australiano
Alberto Pedrielli, direttore
In ogni cultura, ci sono miti che forgiano l’immaginario di una comunità. La sequenza classica: un’impresa eroica, il bene lotta contro il male; va male, poi - colpo di scena - va bene: la giustizia trionfa, vissero felici e contenti.
Ecco, poi ci sono altre storie, trame di fallimenti che disegnano traumi collettivi, destinati a rimanere. A plasmare anche loro una memoria collettiva ma in modo tutt’altro che positivo. La speranza, in questi luoghi ormai dell’anima, è venuta a mancare.
Celebrato ogni 25 aprile, l’Anzac Day per i cittadini australiani significa oggi tante cose. Ma l’evento, la battaglia che ricorda, ovvero quella di Gallipoli del 1915, è in primo luogo la storia di un fallimento.
Siamo nel pieno della Prima guerra mondiale. L’Australia, e come lei la Nuova Zelanda, ha un immaginario giovane, intimamente dipendente da quello della madrepatria con con cui, ora, stanno entrambe combattendo. Anzi, con la quale stanno andando incontro a una disfatta clamorosa. Per di più, contro un avversario di cui stanno rimanendo solo brandelli, l’Impero ottomano.
La campagna per ottenere il controllo delle rotte marittime per i soldati dell’Anzac (Australian and New Zealand Army Corp) si risolve, come ogni guerra del resto, in un brutale massacro. In otto mesi, i soldati australiani a lasciarci la pelle sono circa 8.700, decine di migliaia i feriti.
Per l’isola continente e i suoi abitanti, Gallipoli è un battesimo squallido sullo scacchiere globale. Il trauma è l’immediata eredità di quei giorni di sangue: ma non rimane l’unica, perché a distanza di qualche decennio la narrazione dello sbarco è completamente rovesciata.
A puntellare la galassia Anzac col tempo ci pensano in tanti, a partire dall’Australian War Memorial (AWM), dalla Returned and Services League (RSL), dal Department of Veterans’ Affairs (DVA), che insieme al governo federale e a quelli statali plasmano la mitologia ufficiale dell’evento.
Con l’accendersi di una precisa narrativa istituzionale, Gallipoli non è più la stessa. Nonostante le responsabilità nell’insuccesso, i soldati si sono trasformati nei più riconosciuti eroi della nazione. Lo spirito di sacrificio, il coraggio e l’audacia delle loro gesta, tutte peculiarità riconosciute nei decenni successivi, infiammano il più classico degli scenari patriottici contemporanei.
Secondo il sociologo Brad West, in questo flusso storico gioca un ruolo decisivo la scelta del governo laburista di rendere il pellegrinaggio la principale attività commemorativa, in occasione del 75° anniversario della campagna di Gallipoli. Sarebbe soprattutto il viaggio, metafora per eccellenza del rito di passaggio, a contribuire alla sacralizzazione civile dell’evento, radicandosi come un’esperienza inscalfibile nella memoria dei giovani australiani.
Certo, è impossibile ridurre di tutto, dagli articoli di giornale alle cerimonie pubbliche, passando per le opere multimediali, a una lettura univoca dell’Anzac Day. “Gli anni spezzati” di Peter Weir, per esempio, è una delle pellicole più apprezzate in Australia, anche se una delle principali interpretazioni lo ritrae, in ottica anche antimilitarista, come un affresco sulla distruzione dell’innocenza australiana.
Eppure, è possibile distinguere una linea ufficiale. In particolare, alla luce delle critiche mosse nei confronti di un mito apparso sempre più, in una società insieme ancorata e in mare aperto sui valori che la racchiudono, affatto inclusivo sul fronte di genere, etnico e non solo. Il soldato tipo proietta un fotogramma nitido: un uomo bianco, orgoglioso, leale. Un uomo pronto a immolarsi, non a parole ma nella realtà, perché la guerra è sempre la sua narrativa e viceversa.
Questo ha in mente il Primo ministro John Howard quando nel 2002, ai funerali di Stato per l'ultimo veterano australiano della campagna di Gallipoli, afferma che, nel contesto della "guerra al terrorismo", l'Australia combatte per ciò che ha unito le truppe dell’Anzac nel 1915: la volontà come nazione di fare la cosa giusta, a qualunque costo. L’alba di un’altra storia da riscrivere, ancora e ancora.
“Liberté, Egalité, Fraternité Laicité”: la missione secolarizzatrice della Francia
Enrico la Forgia, vicedirettore
Sono molti gli elementi che contribuiscono alla costruzione di una nazione. Tra questi figurano anche i valori. Che siano religiosi o civili, i valori sono quell’elemento che pongono una nazione, almeno nella propria narrazione, un gradino sopra le altre.
Anche in Francia i valori giocano un ruolo fondamentale nella moderna concezione di nazione. Se “Liberté, Egalité, Fraternité” è il motto più noto al mondo, non sarebbe errato aggiungergli un quarto elemento: la Laicité. Si tratta della laicità intesa “alla francese”: non solo una caratteristica dello Stato e del suo funzionamento ma anche una sorta di obbligo civile. Un’assenza di religione divenuta religione di Stato e, in quanto tale, da imporre alla popolazione.
Il concetto rivoluzionario di laicité indicava nel 1789 la fine dell’influenza del clero sullo Stato. Oggi ha tutt’altro significato, non di rivalsa popolare ma di individuazione dell’Altro: di colui che non fa parte della nazione francese o non ne fa parte a pieno. Quando si parla di laicité, oggi, non si può far a meno di pensare ai musulmani francesi, la minoranza più visibile e stigmatizzata del Paese.
La relazione tra musulmani francesi e nazione è infatti l’esasperazione del rapporto tra religione e Francia: l’obbligo della laicité, ovvero l’eliminazione di ogni ingerenza religiosa nella sfera civile dello Stato - intesa anche come ostentazione di simboli religiosi in pubblico -, è qualcosa a cui anche ebrei e cristiani devono sottostare. Tuttavia, l’isteria francese per l’Islam non è dovuta unicamente alla visibilità dei simboli religiosi islamici (velo su tutti): il discorso è molto più profondo, nazionalista e razzista.
Mentre crisitanesimo e giudaismo fanno parte del patrimonio bianco d’Europa e appaiono come secolarizzate, l’Islam è percepito come un elemento esogeno al limite del primitivo. Un fattore di “negritudine”. Non a caso l’etichetta di “musulmano” viene spesso usata non solo nei confronti dei fedeli, ma anche nei confronti dei francesi semplicemente non-bianchi. La visibilità fisica di queste persone, che sia legata ad abiti tradizionali o al colore della pelle, viene considerata una minaccia all’ordine pubblico e all’unità nazionale. In altre parole, ricorda ai francesi bianchi che il mito delle loro origini comuni non ha alcuna validità storica.
Non è un caso che i francesi non-bianchi, musulmani o meno, vengano ancora categorizzati come elementi estranei alla società. Fino a inizio anni 2000, sia nell’amministrazione statale sia nei settori storicamente più progressisti come l’accademia o il giornalismo, venivano usate categorie come “immigrati di prima, seconda, terza, quarta generazione”, in un continuum esclusivista che relega una specifica parte della popolazione al perenne status di straniero. Gerarchizzandola - secondo il sociologo Abdelmalek Sayad - e imponendole un ruolo di subordinato a livello sociale ed economico - non a caso i francesi non bianchi sono sovrarappresentati nel proletariato.
Una categorizzazione che oggi ha preso forme diverse da quelle del censimento, che comporta una condizione di continua oscillazione tra l’essere inclusi o esclusi dalla nazione. Un’inclusione teorica - diritti politici concessi -; un’esclusione fattuale - da piena partecipazione sociale e senso di appartenenza.
Un francese non bianco e/o musulmano, infatti, dovrà sempre dimostrare la propria fedeltà alla Francia e ai valori della maggioranza, soprattutto la laicité. Per questo, nonostante non ci sia alcuna prova empirica che l’identità di musulmano escluda quella di francese, le donne musulmane devono “svelarsi”, gli uomini radersi e indossare abiti moderni, e tutti devono mangiare carne di maiale e bere alcolici.
Un’isteria che da un lato vede nei musulmani e nei francesi non bianchi una minaccia da affrontare, dall’altro delle persone da soccorrere. Se durante l’epoca coloniale i francesi si auto-giustificavano con la missione civilizzatrice; in epoca moderna si fanno portatori di una sorta di missione secolarizzatrice, affinché le donne non siano sottomesse agli uomini e gli uomini ad Allah, in modo che tutta la nazione francese viva in pace secondo i valori di Libertà, Uguaglianza, Fraternità, Laicità.
Peccato però che, secondo gli studi di scienze sociali, i francesi non bianchi, anche abbandonando l’Islam o altri fattori di negritudine, non escono mai dalla zona grigia. Perché non sono mai considerati abbastanza francesi. Perché non bianchi.
Alla faccia della Fraternité.
Coraggio, Nazioni Unite
Laura Santilli, caporedattrice Nord America
La strada che porta dalla casa di Amal al palazzo delle Nazioni Unite è sempre la stessa: perfino nella città che non dorme mai nulla è cambiato negli ultimi 25 anni.
Amal la percorre ogni giorno, tranne quando è in viaggio per le missioni dell’ufficio affari legali del Segretariato ONU, dove lavora.
Uscendo di casa, quella mattina, si dice che tutto è cambiato in realtà. È cambiata la sua forza, il suo coraggio di continuare a credere e a lavorare in un’Organizzazione che vede impotente, paralizzata dalle volontà di potere e di veto della Nazione di turno.
Ripensa alle parole della lettera di dimissioni che Volker Türk, Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, ha presentato qualche giorno fa, il 28 ottobre: «Segretario generale, stiamo fallendo di nuovo». Credeva, Amal, che la crisi in Consiglio di Sicurezza del febbraio 2003, esacerbata dal discorso costruito su false prove e documenti pronunciato dall’allora segretario di Stato USA Colin Powell per chiedere il sostegno dell’ONU sulla guerra in Iraq, avesse costituito un punto di rottura dal quale difficilmente si sarebbe tornati indietro.
Aveva provato molta rabbia allora, la rabbia che si prova quando ciò in cui si crede con passione e entusiasmo prende un verso differente da quello desiderato, che scivola dalla nostra possibilità di azione. Dallo scorso 7 ottobre però, la rabbia è andata piano piano via, fino a diventare incredulità, paura e stanchezza.
I suoi genitori, gli amici in Giordania glielo ripetono da anni: «Amal, ma dove sono le Nazioni Unite? Non vi rendete conto che siete al servizio degli Stati Uniti da anni ormai? Dov’è andato a finire il processo di pace per il conflitto israelo-palestinese? Solo esercizio di retorica?» E oltre: «Come fai a lavorare per un’Organizzazione così corrotta?! Ragionate solo in termini di post-conflitto, pronti a inviare le vostre agenzie “umanitarie” per ricostruire e redistribuire fondi. Per me l’ONU ha fallito la sua missione.»
Le parole più dure da ricevere sono sempre quelle di suo padre, originario di Jenin, Palestina. «Vi siete rinchiusi nel palazzo di vetro Amal, un vetro bello spesso, che ha perso tutta la sua trasparenza. È diventato così opaco che il mondo lì fuori non l’osservate più. E non venirmi a dire che è una questione più complessa di così, di regolamenti interni, di procedure... è una questione di volontà e responsabilità collettiva nel voler costruire un mondo diverso, che non conceda solo voce a tutti gli altri popoli, ma spazio di azione.»
Lo guarda quel palazzo di vetro Amal: Organizzazione delle Nazioni Unite.
Unite ancora, prigioniere quasi, della logica di potenza e dipendenti dai voti della super potenza. Organizzate su un’idea di multilateralismo sempre più ambigua e fragile.
Entrando nel suo ufficio Amal incontra il gruppo di bambine e bambini provenienti da diversi Paesi, in visita per il Martin Luther King’s day e ospiti dell’Assemblea Generale. Ciascuno di loro ha lasciato dei biglietti con delle citazioni del politico e attivista statunitense sulle scrivanie dello staff. Quello capitato sulla sua, riporta la frase: “Coloro che amano la pace devono imparare a organizzarsi tanto efficacemente quanto quelli che amano la guerra”.
È proprio per questo che non posso mollare, pensa. Non posso permettermi il lusso di non avere speranza anche se continuerà a essere complicato, forse sempre di più, ma è importante e urgente continuare a fare pressione sui governi.
Lottare per il processo democratico e ogni singolo diritto universale, perché si rovesci l’idea di “super-potenza”.
Il precedente racconto è frutto della fantasia dell’autrice ma totalmente plausibile :)
Consigli di lettura:
Anderson B., “Imagined Community: Reflections on the Origins and Spread of Nationalism”, Verso Books, 1983.
Barkey K., “Empire of Difference”, Cambridge University Press, 2008.
Ben D. Mor, “Power and Rhetorical Bargaining: The UN Security Council Debate on the Iraq War”, in Global Society, vol. 21, n. 2, (2007), pp. 229.247.
Caines, R. (2023). “This Is Not a Day for You”: Indigenous Australians and the ‘Disruption’of Anzac Day. In The Palgrave Handbook on Rethinking Colonial Commemorations (pp. 101-126). Cham: Springer International Publishing.
Lundestad Geir, Just another major crisis, (New York: Oxford University Press, 2008).
McDonald, M. (2010). “Lest we forget”: The politics of memory and Australian military intervention. International Political Sociology, 4(3), 287-302.
Said E., “La Questione palestinese: la tragedia di essere vittima delle vittime”, Roma, Gamberetti Editrice, 1995.
Said E., “Orientalismo”, Milano, Feltrinelli, 1999.
Sayad A., “L'immigration ou les paradoxes de l'altérité. 1. L'illusion du provisoire”, Parigi, Éditions Raisons d'agir, 2006.
Sayad A., 2. “L'immigration ou les paradoxes de l'altérité. 2. Les enfants illégitimes”, Parigi, Éditions Raisons d'agir, 2006.
Sayad A., “L'immigration ou les paradoxes de l'altérité. 3. La fabrication des identités”, Parigi, Éditions Raisons d'agir, 2014.
Silverstein P., “Postcolonial France: The Question of Race and the Future of the Republic”, Londra, Pluto Press, 2018.
Pappé I., “10 Miti su Israele”, Napoli, Tamu, 2022.
Urbinati Nadia, Pochi contro molti. Il conflitto politico nel XXI secolo, (Bari: Gianfranco Laterza edizioni, 2020).
Consigli film:
Gli Anni Spezzati, di Peter Weir, Youtube, 1981
Les Misérables, Ladj Ly, 2019.
Sergio, di Greg Barker, Netflix, 2020