“Il conflitto è la cosa più importante. Le buone leggi nascono dai tumulti. Tutte le buone riforme che sono state fatte, anche in Italia, non sono mai venute dal palazzo. Il Parlamento ha tutt’al più approvato istanze nate nelle strade, nei luoghi di lavoro, nelle piazze [...] La prima cosa è capire che il conflitto è una cosa buona. La società deve essere conflittuale”.
M. D’Eramo - Dominio
Estera, l’Italia, il conflitto, i conflitti. Noi e voi.
Enrico la Forgia, vice-direttore de Lo Spiegone e responsabile newsletter
Sonnambulismo: attività motoria notturna, automatica, inconsapevole.
Quando si parla di italiani si può parlare di sonnambuli. Almeno questa è la posizione provocatoria usata dal Censis nel suo 57esimo rapporto sulla situazione sociale del Paese.
“Alcuni processi economici e sociali largamente prevedibili nei loro effetti sembrano rimossi dall’agenda collettiva del Paese, o sono comunque sottovalutati. Benché il loro impatto sarà dirompente, l’insipienza si traduce in una colpevole irresolutezza”.
Così l’istituto di ricerca socio-economica definisce il sonnambulismo degli italiani. Si parla di lavoro, di clima, di razzismo, della cupa aurea trascinata da guerre che ci circonda. Si parla di una speranza per il futuro assente e della scarsa fiducia nelle istituzioni e nei governi, primi tra i sonnambuli. Si parla anche di giovani, ovviamente, isolati e costretti a un “dissenso senza conflitto”.
Ecco: dissenso senza conflitto, il grande assente d’Italia.
In realtà non serviva il Censis a farci notare questa caratteristica dell’Italia contemporanea ma a quanto pare siamo dei sonnambuli davvero: continuiamo a vivere camminando verso un baratro che si prepara a inghiottirci, senza dissentire senza opporci, senza conflitto.
Eppure, in quanto italiani, siamo circondati dai conflitti, militari o meno: ogni conflitto armato recente ci riguarda da vicino; ogni conflitto sociale portato in una qualsiasi piazza, europea o meno, ci riguarda.
Eppure ogni volta che, ad esempio, i nostri cugini francesi si “agitano” molti di noi li ammirano, giustificando la vivacità del loro dissenso con l’eredità della Rivoluzione o della Comune parigina.
Eppure noi italiani, noi sonnambuli, non abbiamo una storia priva di dissenso e conflitti, anzi. I movimenti sessantottini, la Resistenza, il Biennio rosso, tanto per citare la ricca tradizione socialista del Paese. Il movimento dei lavoratori GKN, quello di Non Una di Meno o le organizzazioni ambientaliste, tanto per andare a toccare temi più attuali. Volendo, potremmo anche andare a scomodare i Ciompi del 1378 o i Populares romani del I e II secolo A.c.
Insomma sì, la nostra storia e la nostra tradizione sono ricche di dissenso e di conflitti, armati ma anche sociali, anche se ce lo siamo dimenticati. Le ragioni sociologiche del nostro sonnambulismo, plurime, non sono però argomento da newsletter di una testata indipendente come quella che sto provando a presentarvi ora, in maniera molto confusionaria.
L’obiettivo di questo nostro nuovo progetto chiamato “Estera” è piuttosto quello di riportare alla nostra e vostra attenzione i conflitti passati e presenti del Mondo.
L’idea è quella di inserire dissensi e conflitti nostrani in una cornice globale e radicale. Nello studio dei Movimenti sociali, del dissenso e dei conflitti, memoria e condivisione giocano infatti un ruolo importante, per la trasmissione di idee, di esperienze di vittoria o di sconfitta o di un più pratico know-how. Fabbricare molotov, costruire una barricata o darsi una struttura organizzativa difficilmente individuabile, perseguibile, reprimibile, sono esempi diversi che ricadono nella stessa cornice.
La nostra idea è quella di riportare le esperienze conflittuali del mondo nelle nostre e vostre vite, un po’ per informare e raccontare, un po’ con la presunzione di far scattare una scintilla di consapevolezza e conoscenza. Scintilla che speriamo sia in grado di svegliarci dal nostro sonno politico e di curare il nostro patologico sonnambulismo.
In questo numero di “Estera” troverete diversi contributi di diverso genere - accademico, giornalistico, narrativo - provenienti dall’inchiostro di diversi autori e autrici (ma anche special guest), ognuno con le proprie idee e visione di conflitto che mi sono guardato bene dal modificare.
L’accrocco più o meno omogeneo di questo numero serve come introduzione al più ambizioso progetto che abbiamo in mente nel lungo termine: in Estera troverete pezzi sui conflitti armati, sul conflitto uomo-natura, sulla dimensione conflittuale della e nella letteratura e di identità in aperto conflitto con la società.
Parleremo quindi di qualsiasi cosa comporti una qualsiasi forma di lotta. Alcuni numeri si concentreranno su una dimensione specifica, altri saranno più generali. Voi, in quanto lettori e lettrici, potrete chiederci pareri o approfondimenti o dissentire ed entrare in conflitto con noi quando vorrete, semplicemente scrivendoci per email - estera@lospiegone.com.
Non penso esista un modo efficace di presentare una newsletter. Potrei scrivere di Estera all’infinito, ma è meglio se vi lascio così: con un augurio di buona lettura e con una vaga idea, magari accompagnata da curiosità, di conflitto così come lo intendiamo noi: come forza motrice di cambiamento, che sia armato o pacifico, positivo o meno.
Guerra e conflitto: una questione di terminologia?
Francesco la Forgia, caporedattore Strategia & Sicurezza
Le opinioni espresse nel seguente contributo sono attribuibili esclusivamente all’autore.
La guerra è un fenomeno che da sempre ha caratterizzato le vicende umane. Presente in ogni epoca, essa rappresenta la forma più organizzata ed estrema di violenza tra due Stati. Leggendo i libri di storia, la guerra sembra quasi un fenomeno naturale, un elemento imprescindibile nel processo di formazione di un popolo, della sua identità, della sua memoria collettiva e, soprattutto, nella definizione dei suoi confini.
Tale è la sua natura che Carl von Clausewitz, all’indomani della fine delle guerre napoleoniche, la definiva come “la prosecuzione della politica con altri mezzi”, o ancora, “un atto di violenza per imporre all'avversario la nostra volontà”. La guerra fa quindi parte della vita politica di uno Stato, ne è uno strumento da utilizzare quando la diplomazia fallisce, quando la controparte non vuole sentire ragioni: è un mezzo per imporre il proprio punto di vista nell’ambito di un conflitto tra Stati. Di fatto, e questo va detto, conflitto e guerra non sono sinonimi, ma due concetti differenti.
Il conflitto, anche nell’ambito delle relazioni internazionali, non implica necessariamente l’uso della violenza aperta. Due stati possono avere interessi contrastanti o essere coinvolti in una controversia (un conflitto dunque) senza tuttavia entrare in guerra. È l’intensità della controversia in questione (di solito) ad essere l’elemento determinante nel far scaturire il conflitto in guerra aperta.
Un esempio perfetto di conflitto ad alta intensità, dove ancora tuttavia non si è arrivati alla guerra, è la questione taiwanese. La Repubblica Popolare Cinese considera l’isola di Taiwan come parte del proprio territorio nazionale. Agli occhi di Beijing quello di Taipei è un governo ribelle, separatosi dalla Cina all’indomani della guerra civile, quando le forze nazionaliste di Chiang Kai-shek, ormai sconfitte dai comunisti guidati da Mao Zedong, si ritirarono sull’isola di Taiwan. Si tratta di un conflitto ad alta intensità, con il governo cinese che organizza annualmente esercitazioni militari sullo stretto di Taiwan per mettere sotto pressione il governo di Taipei. Vi è quindi un certo utilizzo della forza intesa come deterrente, ma ancora non si è arrivati a una situazione di guerra aperta.
Nonostante questa differenza tra guerra e conflitto, i termini vengono ormai utilizzati intercambiabilmente nel linguaggio giornalistico. È una scelta lessicale certamente inconscia, ma che comunque riflette l’evoluzione della guerra stessa; la guerra come l’abbiamo conosciuta dai giornali per i primi due decenni del XXI secolo, ovvero guerre condotte contro organizzazioni terroristiche e attori non statali, guerre quindi asimmetriche, definite non da grandi scontri campali, ma da azioni di guerriglia e controguerriglia.
Certo, gli scontri tra Stati non sono comunque mancati (ad esempio la guerra USA-Iraq del 2003), ma, fino all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel febbraio del 2022, erano perlopiù le guerre combattute tra Stati e organizzazioni terroristiche ad attirare l’attenzione dei giornali. Gli attori non-statali, per definizione e mezzi a disposizione, si trovano ad adottare strategie e tattiche di guerra asimmetrica, evitando lo scontro diretto, nascondendosi tra la popolazione civile ed espandendo la propria rete in diversi Paesi. L’attività bellica diventa quindi piena di sfumature e zone grigie, con un tipo di violenza meno intensa, ma costante, portando quindi a preferire il termine conflitto internazionale a quello di guerra nella sua accezione classica.
Tale terminologia è quindi ormai entrata a far parte del nostro vocabolario come sinonimo di guerra; un’evoluzione che possiamo accettare, in quanto, anche nelle attività belliche tra Stati sovrani, si utilizzano elementi tipici dei conflitti asimmetrici, come sta avvenendo in questo momento in Ucraina.
Basta pensare alla cyberwarfare o alla guerra d’informazione (la Russia preferisce definire l’invasione come “operazione speciale”), che per natura tendono ad espandersi al di là dei confini dei Paesi belligeranti, coinvolgendo anche la popolazione di Stati terzi ed estendendo l’effetto destabilizzante del conflitto in corso. O come l’utilizzo dei droni, che, da arma simbolo della caccia al terrorismo, sono divenuti l’emblema della resistenza ucraina. O ancora come l’impiego di contractors, vere e proprie milizie mercenarie al soldo di uno Stato. Di contro, anche le situazioni di guerra asimmetrica, come quella ora in corso tra lo Stato di Israele e le milizie di Hamas, possono assumere le caratteristiche di una guerra totale, con intere divisioni corazzate ingaggiate in combattimento e raid missilistici su vasta scala.
Dove inizia il nostro rapporto con la guerra?
Alberto Pedrielli, direttore de Lo Spiegone
Guerra. All’udire questa parola, la mia mente vola all’evento più decisivo della recente contemporaneità, il secondo conflitto globale. Sei anni di massacri ininterrotti, al termine dei quali le società dell’Europa occidentale sono rimaste intrappolate in un paradosso.
Da un lato, la storiografia ufficiale descrive il boom economico e i trenta gloriosi (il periodo di crescita dello Stato sociale che arriva agli anni Settanta) come uno dei più prolifici periodi di pace della nostra storia. Dall’altro, è impossibile nascondere come la guerra sia rimasta una condizione permanente.
L’Italia, quello che ne rimaneva, nel 1945 si trovava proprio su quest’orlo estremo. Lo si poteva toccare con mano, recandosi nella città di Trieste, dove le potenze vincitrici avevano tracciato la linea di separazione tra Ovest ed Est nota come cortina di ferro. Ma lo si poteva anche respirare negli anni successivi nelle case, nelle strade, nelle pieghe mai risolte di un conflitto civile conclusosi senza processo.
Insomma, il bel Paese è rimasto sempre dentro un conflitto, racchiuso dentro un confine. Anche dopo il crollo del Muro, la pace per l’Europa e di conseguenza per noi è rimasta un orizzonte irraggiungibile, con uno scontro aperto nei Balcani i cui effetti perdurano tutt’oggi. Senza considerare le evoluzioni della politica bellicista degli Stati Uniti e della Russia di Putin, che hanno ulteriormente avvicinato il nostro presente a quello dei conflitti.
Chiederci dove inizia il nostro rapporto con la guerra, pur con tutti i limiti della nostra esperienza, significa quindi chiederci dove stabiliamo, quotidianamente, la frontiera che separa la civile convivenza dal boato dei proiettili.
Vogliamo allora lo sguardo sui confini stessi. In un saggio recente, Gracie Mae Bradley e Luke De Noronha identificano nelle frontiere non ciò che definisce i bordi di un territorio, ma ciò che delinea un complesso sistema di gerarchie con cui vengono conferiti diritti e doveri diversi a soggetti diversi.
Lo Stato-nazione si basa del resto su questo presupposto: garantire ordine all’interno di uno spazio geografico comporta innanzitutto identificare chi fa parte di questa comunità immaginata e a quale titolo, nonché proiettare aspettative che regolino pensieri e azioni di questo qualcuno.
È in questo incontro-scontro tra presente e futuro, tra individuo e comunità, che può inserirsi e intervenire la violenza, di cui lo Stato e in particolare le forze di polizia sono le principali detentrici. Al di qua della legge, niente violenza. Al di là della legge, il boato dei proiettili ritorna realtà.
Parlare di guerra in una democrazia ci può far storcere il naso. Eppure, anche le democrazie liberali possono trovare un nemico al proprio interno: contro l’opzione deviante, gli apparati statuali non esitano a predisporre delle camicie di forza. Non basta certamente questo per includere tutti gli utilizzi della violenza istituzionale nell’alveo della guerra. Ma cosa allora?
A venirci incontro sono gli studiosi ma anche gli stessi apparati. Seguendo ciò che sostiene Margaret MacMillan, a fare la differenza tra guerra e no è il carattere organizzato dello scontro. Seguendo l’esempio degli Stati Uniti, da cui anche noi in Italia abbiamo preso in prestito schemi mentali e applicazioni politiche, le élite di molti Paesi occidentali hanno individuato nella criminalità un bersaglio da combattere in maniera sistematica. Con una guerra, appunto.
Nelle politiche di tolleranza zero, per esempio, questa visione si è imposta nella maniera forse più emblematica, targetizzando le comunità disordinate, cioè povere, marginalizzate, il cui frammentato discostarsi dalle norme evoca la peggiore distopia nell’immaginario nazionale. Cosa può esserci di peggio di una squadra di Joker che, come nella scena di Todd Phillips, decide di affinare la mira contro chi ha sempre bullizzato le sue fragilità?
Come riporta Wolf Bukowski, prima di diventare “tolleranza zero”, la Quality-of-life Policing aveva un segno non securitario ma welfaristico. Indicava infatti che la qualità della vita dipendeva dalla parte “sociale” dello Stato.
Ecco, come negli USA, anche da noi la diminuzione degli investimenti nella politica della cura è andata di pari passo con una crescita della criminalizzazione e delle azioni di polizia, che su entrambe le sponde dell’Atlantico si sono scagliate, in modo organizzato e sistematico, contro una parte specifica della società. Contro cui si è scelto di disegnare un confine.
Il capitale contro la città
Matteo Savi, autore redazione Africa
Moltissime dinamiche sociali possono essere analizzate con gli strumenti che utilizziamo per studiare i conflitti, aprendo così nuove strade per comprenderne la natura e gli sviluppi. Una di queste è la gentrificazione, ossia la trasformazione delle aree urbane popolari in zone di pregio, con un grande impatto sulla loro composizione urbana, il loro tessuto urbano e ovviamente il prezzo delle loro abitazione.
La gentrificazione può avere molte cause, dettate dalle normali oscillazioni delle economie locali, ma è sempre più frequente vederla accadere in maniera pianificata come parte delle operazioni delle grandi aziende immobiliari.
In questo caso, la gentrificazione può essere inquadrata come un vero e proprio conflitto tra gli interessi economici di un ristretto gruppo di capitalisti e gli abitanti storici delle zone interessate, che sono costrette a trasferirsi o subire deterioramento delle loro condizioni di vita.
Molte zone centrali (e non) delle principali città italiane ed europee si stanno velocemente gentrificando, ma il luogo dove questo fenomeno è più visibile nel continente è probabilmente Londra.
La capitale britannica è un magnete per soggetti molto facoltosi da tutto il mondo, oltre che ingenti capitali attirati dalla tassazione favorevole e la deregolamentazione finanziaria, il che genera non solo una grande domanda di alloggi di lusso ma anche opportunità di speculazione immobiliare.
Il risultato è che già nel 2011 il 15% della città risultava in via di miglioramento economico, che in circa metà delle zone si traduceva in processi di gentrificazione. Nonostante non esista un report dettagliato aggiornato sui processi di gentrificazione, gli analisti concordano sul fatto che questa cifra sia aumentata negli ultimi 10 anni. In alcuni quartieri già benestanti si è assistito addirittura alla cosiddetta “super-gentrificazione”, ossia l’avvento di cittadini estremamente ricchi in zone già facoltose, che qui innescano gli stessi processi di aumento dei prezzi e “cacciata” dei residenti.
Soprattutto nei quartieri più working class e nelle vecchie aree industriali degradate, le autorità locali sono spesso felici di attirare gli investimenti dei costruttori perché possono estrarre tasse municipali maggiori da complessi di appartamenti di lusso, quindi favoriscono l’acquisto di terreni ed edifici da parte degli speculatori.
A volte questo avviene tramite la dismissione dei complessi di case popolari, con la conseguente ricollocazione degli inquilini in altre aree (sempre più periferiche) della città, il che risulta in un indebolimento delle reti sociali di quartiere.
I nuovi palazzi costruiti su quei terreni tendono poi a essere appartamenti o case di pregio (se non di lusso), il che porta in zona cittadini con maggiori risorse economiche, che a loro volta attirano attività economiche di fascia più alta (supermercati costosi, ristoranti chic etc.), che a loro volta fanno salire i prezzi delle case e degli affitti in un circolo vizioso.
Il risultato è che quartieri mediamente poveri come Peckham e Brixton stanno velocemente perdendo le attività e i residenti storici, sostituiti dai nuovi yuppies e da anonimi ma costosissimi bar e ristorantini. Lo smacco finale è che questo processo violento risulta come “riqualificazione” nelle carte del comune. Quello a cui assistiamo però è un vero e proprio conflitto, in cui la ricerca di profitto si scontra con il diritto a esistere delle classi povere, e che risulta nella distruzione delle identità di quartieri con decenni di storia.
Accettare la battaglia contro quello che non dipende da te
Laura Santilli, caporedattrice Nord America
«Mi corrisponde, è come se fossimo sulla stessa lunghezza d’onda. Voglio trasferirmi lì non appena finita l'università. Ho già il C1 in tedesco e se ci vado in Erasmus, sicuro troverò anche lì il lavoro che sogno e per cui sto studiando».
Mi dice così Sara quando, al ricevimento studenti dell’ufficio Erasmus dell’università in cui lavoro, le domando come mai proprio Berlino come unica scelta tra le mete della sua domanda Erasmus.
Magari fosse così facile Sara, così automatico, penso. Potrebbe andare come vuoi, ma anche no. Mi mordo la lingua e non glielo dico, ovviamente. Il condizionale è un tempo miserabile e mai avrei voluto, quando mi sono trovata esattamente al suo stesso posto anni fa, che qualcuno mi dicesse di lasciare da parte i miei sogni, le mie passioni per la concretezza della realtà.
Non l’avrei comunque fatto. Ciascuno ha il suo percorso, le sue prove, la sua fortuna. Il fatto che a me non sia andata bene, non significa che per altri sarà lo stesso.
Mi avevano avvertita, chiaramente. Affannarsi a scoraggiare è esercizio che piace a molti. «Guarda che non penso sia facile, la strada è tutta in salita». «Certo pure tu Laura, Relazioni Internazionali e che pensi di farci? In Italia poi e all'università pubblica: lavoro assicurato. Ti vuoi proprio bene eh?»
Sì, mi sono voluta bene e risceglierei Scienze Politiche mille volte ancora. Anche perché se avessi scelto la facoltà in funzione del lavoro, credo che sarei ancora a dare esami.
Alla fine ci è voluto tempo per trovare lavoro? Sì e affinché godessi del privilegio di trovarlo stabile, non ho un lavoro che è la passione della mia vita e che si avvicina a ciò per cui ho studiato.
L’ho vissuta male e è battaglia quotidiana, soprattutto perché il mio mantra di sottofondo è stato a lungo: se non ce l’ho fatta, è colpa mia. È una mia responsabilità.
La narrazione che mi ripetevo è iniziata piano piano a cambiare solo quando mi sono resa conto di non essere l’unica, quando ho iniziato a parlarne e a condividere con altri che, come me, hanno fatto il meglio che hanno potuto, ma non è andata. Quando mi fermo e penso che poteva andare anche peggio di com’è perché di scontato non c’è nulla.
Ciascuno di noi proviene da città, ambienti sociali e economici differenti e le diverse condizioni di partenza incidono molto sulle possibilità di riuscire, di avere “successo”. Non è quello che la nostra società ci spinge a credere, ma la realtà è questa e il mondo del lavoro, rispetto all’università, te lo sbatte in faccia presto e bene.
Per superare il conflitto con la mia voce interna, mi ripeto una frase che ho letto tempo fa: “tu non sei il tuo lavoro”. Non mi sono mai immaginata a vivere in funzione di un lavoro perché non sono così e così non mi hanno educata: la vita è altro e altrove, nel prendersi cura della collettività, nel coltivare le proprie passioni che restano tali, anche senza un ritorno economico che anzi, forse, a volte le trasforma fino a snaturarle.
«Pensi vada bene la mia domanda Erasmus? Che mi consigli per restare poi a vivere a Berlino?».
Ecco appunto, io non volevo dirti nulla Sara e poi odio dare consigli.
Tentenno un po’ e le suggerisco solo di aspettare e vedere se sarà presa in Erasmus, di pensare a una cosa per volta.
Il verbo aspettare non la convince molto, si alza, mi ringrazia del tempo dedicato e si allontana. Mentre apre la porta dell’ufficio la chiamo: «Sara». Si volta, mi guarda. «Anche se non so come andranno i tuoi progetti, sono certa che farai il massimo in tuo potere per realizzarli. Ricorda solo però, che nella vita non tutto dipende da te».
Quando il conflitto è QUEER
Rachele Reschiglian - dottorandə in Scienze Sociali, Università di Padova
«Ho dovuto dichiarare che la mia mente era in guerra con il mio corpo, che la mia mente era maschile e il mio corpo femminile» - Paul B. Preciado, Dysphora Mundi
Il mio corpo è un campo di battaglia, dove chiunque sia entrato a contatto con questo ha portato in me un conflitto. Un conflitto che è attraversato da millenni di storia a partire da molto prima che il mondo stesso iniziasse ad esistere. Da quel caos conflittuale e generativo, si è iniziato a dover dare un ordine, etichette, aspettative, categorie.
Sento sempre che le categorie si appiccicano su di me e fanno la lotta tra di loro e soprattutto con me stessə. Un conflitto che non lascia in pace ciò che materialmente esiste di me e tutte le relazioni che questa materia ha con il mondo che la circonda. Conflitto interno ed esterno: si scontra con le aspettative di un corpo che è percepito, che è vissuto, ma soprattutto intuito in maniera diversa in base agli occhi che lo incontrano. Conflitto che si genera, conflitto che continua, conflitto che crea e che distrugge.
Con una parola io riassumo tutto questo: ovvero Queer. Queer che è conflitto, Queer che è lotta, Queer che è spazio generativo, ma soprattutto di scoperta e di messa in discussione di tutto quello che si è sempre pensato essere Verità, con la V maiuscola.
Ci è stato insegnato a vivere senza manifesta critica quello che è un sistema che non lascia libertà alle diverse soggettività di esistere, di essere. Queer, inteso come scontro e conflitto, crea uno spazio per agire, per finalmente avere un potere che ci è stato negato fin dall'inizio. Fin da quando eravamo in grembo a qualcunə che ci ha sopportato per nove mesi, con tutte quelle aspettative e necessità di darci identità che ancora non conoscevamo. Con questo potere ci hanno tolto la possibilità di autodeterminarci, ma soprattutto di entrare in conflitto con quello che ci circonda.
Sfoglio con grande rabbia e con grande gioia “The Queer Nation Manifesto” (1990) e vedo in queste pagine quel conflitto. Parole dure, parole aspre e squarcianti. Sento, provo, accolgo, abbraccio tutte quelle emozioni che da anni ormai si vivono sulla pelle di chi è queer.
È un miracolo che tu sia qui a leggere queste parole: dovresti essere a tutti gli effetti già morto. Non farti ingannare, il mondo è degli etero e l’unica ragione per cui sei stato risparmiato è che sei intelligente, fortunato, oppure un combattente. – The Queer Nation Manifesto
Giorno dopo giorno, aspiro a un mondo di combattentə nella routine giornaliera, che prendano in mano le loro identità ed insieme entrino in lotta contro i sistemi discriminatori che caratterizzano il nostro mondo. Nel momento in cui altrə hanno deciso di renderti oppressə da pensieri e categorie che non ti appartengono e con un conflitto ti ritrovi a ribaltare tutto quello che hai sempre pensato e/o vissuto a causa di questo… finalmente inizierai a sentirti meglio. Ti sentirai più leggerə, più liberə. E forse farai sentire più liberə anche altrə con la tua azione.
Perché non c'è nulla di meglio che vivere la queerness nella propria quotidianità, quando crei o trovi lo spazio insieme ad altrə per vivere quel conflitto in maniera costruttiva e non più unicamente di contrasto, per la liberazione di tuttə. Ed è di liberazione che si parla, quando si parla di conflitto nel queer.
Conflitto narrativo: il motore dello storytelling
Giacomo Zito, autore Centro e Sud America
Nell’agire quotidiano quante volte può capitarci di chiederci se sia meglio “soffrire colpi di fionda e dardi d'oltraggiosa fortuna o prender armi contro un mare d'affanni e, opponendosi, por loro fine”? Probabilmente non così spesso, a meno che ad esempio non ci venga chiesto, per un qualsiasi motivo, di interpretare il ruolo di Amleto nell’omonima opera di William Shakespeare.
Il quesito è tra i più famosi della letteratura: meglio essere o non essere? Vivere o morire? Sorvolando innocentemente sugli oceani di parole dedicati a questo (probabile) soliloquio, in questa sede si è deciso di scomodare il Bardo dell’Avon solo per cogliere una delle tante sfumature deducibili, quella dedicata al tema del conflitto.
Attraverso Amleto, Shakespeare infatti gioca su diversi piani narrativi. Facendo domandare al suo personaggio se sia meglio agire o non agire, si starebbe infatti chiedendo più in generale come e se un protagonista dovrebbe rispondere a un problema. La soluzione, almeno per quei tempi, sarebbe dovuta apparire più o meno scontata: il protagonista agisce, vive, è. Se non lo facesse, non sarebbe tale.
Dopotutto, se decidessimo ancora una volta di generalizzare, tralasciando tutta quella narrativa contemporanea che pone nette differenze tra un protagonista in quanto tale e un eroe, di fronte alla domanda “chi è l’eroe di un romanzo” in quanti avrebbero un dubbio sul rispondere?
Un famoso guru contemporaneo dello storytelling come lo statunitense Robert McKee paragona il conflitto alla narrazione come il suono alla musica, ovvero l’elemento portante di un racconto. In quella che definisce la “legge” del conflitto, spiegata nel suo Story (una via di mezzo tra una Bibbia e un DSM-5 dello storytelling contemporaneo), McKee categorizza tre diversi tipi di conflitti che interessano i protagonisti di un racconto: interno, esterno o relazionale. L’uno dà forza all’altro e il loro intreccio dà carburante al racconto.
Il chiedersi se sia meglio essere o non essere, per esempio, potrebbe quindi esser letto come un conflitto interiore, in quel caso particolare scaturito da un conflitto esterno (spoiler: l’uccisione del padre del protagonista da parte dello zio). Decidere di combattere l’Impero galattico porta invece un giovane Luke Skywalker a combattere un conflitto esterno, scaturito dalla necessità di dare delle risposte al suo conflitto interiore (e, perché no, anche a scoprire infine le proprie origini).
Senza entrare nel merito delle numerose critiche rivolte al metodo McKee (che secondo alcuni si sforza di categorizzare un’arte come lo storytelling che categorizzabile non è), certo è che il suo personaggio è ora considerato come uno con cui, nel bene o nel male, ci si deve confrontare. Un Aristotele dello storytelling, per voler usare un’iperbole.
Nel suo intento di cercare di mettere ordine nel caos della creazione ha di certo un po’ delegittimato l’estro, ma ha perlomeno il merito di aver fatto ulteriore chiarezza su un metodo, portando alla luce determinati modelli. Attraverso questi modelli si rende più facile capire cosa è e cosa non è un conflitto narrativo.
McKee, e tanti come lui, ce lo descrivono appunto come il centro di un racconto, ciò che lo rende avvincente. Nella sua categorizzazione, quindi, il conflitto diviene così un elemento positivo: è quel problema da superare per giungere a una nuova e migliore condizione. Nell’affrontare un conflitto, il protagonista è costretto a passare da una situazione di stabilità a una di instabilità, che sia questa condotta o indotta. Nel passaggio si forma, si evolve e magari cambia anche punto di vista.
Il conflitto è quindi quella scala da salire per aprire la porta da cui accedere a un mondo migliore per il protagonista e per chi gli è intorno. Unica eccezione? Forse nei racconti horror; là, probabilmente, quella porta sarebbe meglio tenerla chiusa.
Consigli della redazione
Lettura
-Francesca Mannocchi, Porti ciascuno la sua colpa, (Bari: Giuseppe Laterza & figli, 2019)
-Raffaele Alberto Ventura, Teoria della classe disagiata, (Roma: Minimum fax, 2017)
Visione
-La Persona peggiore del mondo (The Worst Person in the World), di Joachim Trier, 2021, Teodora Film
-Nomadland, di Chloé Zhao, 2020, Walt Disney Studios Motion Pictures
Fonti e approfondimenti
Bradley, G.M. & De Noronha, L. (2023). Contro i confini. Add editore.
Bukowski, W. (2019). La buona educazione degli oppressi: piccola storia del decoro. Alegre.
Davis, A. (2022). Aboliamo le prigioni?: Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale. Minimum fax.
Hardt, M. & Negri, T. (2004). Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale. Rizzoli.
MacMillan, M. (2021). War. Come la guerra ha plasmato gli uomini. Rizzoli.
Re, L. (2010). Carcere e globalizzazione. Il boom penitenziario negli Stati Uniti e in Europa. Laterza.Anche l’ONU dice che la polizia italiana ha un problema con il razzismo
Urban Displacement Project, London – Gentrification and Displacement
McKee R. (2010), Story. Contenuti, struttura, stile, principi per la sceneggiatura e per l'arte di scrivere storie, Omero.