🛠️ Fanc*lo il lavoro
Di classi, povertà, morti bianche e altre atrocità che vi spingeranno all'antilavorismo - n° I, serie IV
“Ho sempre considerato il lavoro semplicemente il rifugio delle persone che non hanno nulla da fare” - O. Wilde
Una fiaba antilavorista
Enrico la Forgia, vicedirettore e responsabile newsletter
Una nota fiaba popolare racconta che la laboriosa formica lavora duramente l'estate in vista dell'inverno, mentre l'oziosa cicala canta tutta la bella stagione per poi trovarsi a stomaco vuoto nei mesi più duri. La morale della favola pare abbastanza ovvia, eppure è sospetta. Non si tratta, infatti, di una storia veritiera dal momento che manca un personaggio fondamentale: la sanguisuga.
Se la favola riflettesse la realtà, la formica consegnerebbe gran parte del frutto del suo lavoro alla sanguisuga, per poi ricevere le briciole, indispensabili per non morire di fame come la cicala e continuare a lavorare. Sarebbe una fiaba amara, critica, pedagogicamente marxista, in cui noi tutt* ci immedesimiamo nella sfruttata formica.
Il lavoro “nobilita l'uomo” si dice, ma in realtà non fa altro che arricchire il padrone. Lo dimostra l'accentramento della ricchezza nelle mani di sempre meno gente con patrimoni sempre più imbarazzanti davanti a statistiche che, limitandosi solo all'Italia, mostrano come quasi una persona su dieci viva in condizioni di povertà assoluta.
La società capitalista ci insegna che il lavoro è un'attività tanto etica quanto religiosa che non solo ci permette di mangiare e pagare l’affitto, ma che diventa parte integrante della nostra identità. Ci rende chi siamo, diventa strumento di misura delle nostre qualità e del nostro successo.
Si tratta di egemonia culturale.
“La lotta di classe c'è stata e l'hanno vinta i ricchi e non hanno fatto prigionieri” dice lo storico Alessandro Barbero. Niente di più vero. Non si spiegherebbe altrimenti come mai così tante persone siano convinte di poter diventare Eleon Musk o Giovanni Ferrero semplicemente grazie al sudore della propria fronte e non agli introiti delle miniere sudafricane di famiglia o all’eredità del “papy”.
Colpa anche dei giornali mainstream, come sempre, che non fanno altro che rilanciare notizie di formiche fattesi da sole e di giovani cicale che non vogliono lavorare. Colpa anche dello Stato sanguisuga, che da un lato, non è stato in grado di garantire un adeguamento dei salari negli ultimi 30 anni o di provvedere a uno stipendio minimo; dall'altro, ha interiorizzato e istituzionalizzato le ingerenze e le pressioni di Confindustria e Co. fino a sembrare non uno strumento della collettività ma un'arma al servizio dei capricci dei padroni. Un esempio? Tavares di FCA che minaccia lo Stato di delocalizzare nel caso Roma non garantisca sovvenzioni…. il tutto con uno stipendio annuo da 65 milioni di euro.
Lavoro che paradossalmente diventa il principale strumento di riproduzione delle disuguaglianze. Poveri lavoratori che rimangono tali anche dopo la pensione, migranti che a seconda del proprio status (regolari o meno, comunitari o meno) subiscono un determinato grado di sfruttamento, giovani costretti a mettere sul mercato del lavoro le proprie qualità praticamente a titolo gratuito.
Se raccontata così, la favola della cicala e della formica (e della sanguisuga) diverrebbe un incubo narrativo. Una storia horror resa più paurosa dal fatto che racchiudere diversi elementi reali.
Eppure potrebbe avere un lieto fine.
Da quando esiste il lavoro esistono le cicale, le formiche e le sanguisughe. Da quando le sanguisughe sfruttano e succhiano, le cicale e le formiche, alle volte, si organizzano per resistere.
Il mondo del lavoro contemporaneo è ricco di lotte, alcune vanno avanti da decenni…le lotte sindacali per la sicurezza sul lavoro o l’adeguamento degli stipendi, le lotte femministe per la parità di genere a livello di retribuzione o per far riconoscere il lavoro di cura familiare come lavoro effettivo. Le esperienze di autogestione e gestione diretta degli stabilimenti industriali, come insegna il caso del GKN, esempio di autogestione operaia…
Sono tutte lotte che avanzano di pari passo e ricadono in un’unica cornice: quella per la liberazione dell’essere umano dalle catene dello sfruttamento. E poi chissà…magari la liberazione da ogni forma di lavoro.
Il vero destino dell’uomo è l’ozio, l’arte, le scienze o qualsiasi attività che elimini l’obbligo del denaro, dal momento che una società basata sul lavoro salariato è una società che legittima e perpetra lo sfruttamento. Il futuro dell'umanità consiste nella liberazione delle nostre vite dalla centralità del lavoro. Il finale alternativo della favola è l’antilavorismo, che in questo numero di Estera vi accompagnerà di nascosto come l'obiettivo politico-sociale ultimo delle nostre società.
Chi più chi meno, noi e voi, abbiamo tutt* avuto esperienze di lavoro traumatiche e traumatizzanti: stage sottopagati, lavori senza contratto, lavori cambiati nella speranza di trovare un posto per il quale non si è sovraqualificati o sottopagati.
“Fanc*lo il padrone” è dunque dedicato a noi tutt*, cicale e formiche vogliose di sbarazzarsi della sanguisuga per organizzarsi la vita e il lavoro a proprio piacimento.
Suona proprio un ottimo lieto fine.
Le tappe del numero:
🦅 Il primo contributo di “Fanc*lo il lavoro” inizia con la caporedattrice di Nord America, Laura Santilli, che ripercorre la storia delle fasce più deboli dei lavoratori statunitensi, dagli “Okies” del 1929, costretti a migrare, ai lavoratori d’oggi che non riescono ad accettere ai programmi della previdenza sociale.
👵 Il secondo articolo è stato scritto dalla special guest della giornata: Lucrezia Alice Moschetta, ricercatrice universitaria che si occupa di disuguaglianze di genere, lavoro di cura e invecchiamento. Oggi, vi parlerà delle problematiche del modello assistenzialista familista italiano e delle sue contraddizioni.
📢 “Fanc*lo il lavoro” prosegue con il pezzo della caporedattrice Asia e vicedirettrice Veronica Barfucci, che tra lotte, restrizioni e resistenze vi porterà nel Regno Unito, per analizzare la storia e le modalità di protesta dei sindacati britannici. La citazione iniziale è da far accapponare la pelle e bollire il sangue…
⛑️ Lavorare ma rimanere poveri. E’ possibile? Il pezzo di chiusura di questo numero di Estera è stato scritto da nientemeno che il nostro direttore, Alberto Pedrielli: si tratta di una riflessione sulla conflittualità del mondo del lavoro e di come singoli individui e collettività possano resistere alle classi dominanti.
Buona lettura,
Lavoro a tempo infinito
Laura Santilli, caporedattrice Nord America
La fotografa statunitense Dorothea Lange fotografò per tre anni le migrazioni interne agli Stati Uniti che iniziarono dopo il crollo della borsa di Wall Street, nel 1929.
Oltre alla profonda crisi economica, le zone centrali degli USA furono colpite da lunghi periodi di siccità, tempeste di sabbia, alluvioni e esondazioni del Mississippi.
Il disastro ecologico, causato anche da decenni di tecniche agricole inappropriate, provocò numerose migrazioni di persone dall’Oklahoma, dal Kansas, Texas e da altri Stati confinanti.
Tra il 1931 e il 1939 più di trecentomila persone abbandonarono la propria casa e la propria terra per cercare un nuovo inizio altrove.
Furono soprannominati “Okies” per via della provenienza dall’Oklahoma della maggior parte di essi. Termine che assunse ben presto il significato di “buzzurro”, “cafone” per via della miseria e del degrado in cui i migranti si trovarono costretti a vivere: stipati a centinaia in tendopoli fatiscenti e prive di qualsiasi servizio igienico.
Questo soprannome, “Okies”, è tornato realtà negli Stati Uniti dopo la crisi finanziaria del 2008, ma indica un gruppo diverso di persone. I commentatori più attenti alla storia del Paese infatti, definiscono Okies of the great recession, tutti coloro che, nonostante i settanta, a volte ottanta anni di età, devono continuare a lavorare per sopravvivere e molto spesso non basta.
Dalla fine degli anni Ottanta, il sistema della previdenza sociale negli Stati Uniti è cambiato profondamente, passando da piani pensionistici a prestazioni definite a piani a contribuzione definita. Nel 1983, il Congresso e l'amministrazione Reagan portarono avanti un rafforzamento dello stato finanziario del programma di previdenza sociale, ma alcuni dei cambiamenti apportati furono volti a incoraggiare i lavoratori nel ritardare il pensionamento e la riscossione delle prestazioni. Dopo il 1983, l'età pensionabile dei lavoratori per ricevere le prestazioni della previdenza sociale passò da 65 a 67 anni.
Anche in questo caso, purtroppo, gli Stati Uniti hanno fatto scuola. Dal 1980 al 2014, la quota di lavoratori con soli piani pensionistici a prestazione definita è scesa dal 28% al 2%, quella con qualsiasi combinazione di piani che includa un piano pensionistico a prestazione definita è scesa dal 39% al 13% e quella con soli piani pensionistici a contribuzione è quasi quadruplicata dal 9% al 34%.
In questo quadro, le lavoratrici e i lavoratori statunitensi sono costretti a lavorare sempre più a lungo per riuscire a finanziare questo meccanismo di previdenza sociale, pensato inizialmente, per integrare la pensione, non per finanziarla completamente.
Per gli impiegati statali o gli impiegati del settore privato sopravvivere a questo sistema significa risparmiare e evitare investimenti azzardati. Per la working class e per coloro che si trovano ai margini dell'economia, adattarsi può significare avere più di due lavori, o dover abbandonare la propria casa perché il costo dell’affitto e le bollette superano gli stessi stipendi. Significa non potersi permettere alcun accesso al sistema assicurativo che consente di avere un’assistenza sanitaria.
Secondo Monique Morrissey, dell'Economic Policy Institute di Washington, l’aspetto peggiore di questa situazione per la società statunitense è che non se ne riesca a discutere collettivamente, perché ogni tentativo di dibattito viene complicato dallo stigma culturale della non produttività.
Tutte e tutti coloro che si ritrovano a vivere su un van o su un camper per rispondere alla domanda di lavoro stagionale anche a settant’anni, preferiscono non parlarne apertamente e soprattutto, non lamentarsene per non correre il rischio di essere ancora più marginalizzati dalla società.
È dura, scrive Nicole in una lettera aperta a Newsweek, rendersi conto che vivere l’american dream non è una possibilità aperta a tutte e tutti, non è una realtà concreta, ma sempre più un’utopia.
L’invecchiamento in Italia: i conflitti, le disuguaglianze e i paradossi
Lucrezia Alice Moschetta, ricercatrice
L'Italia è il secondo Paese più vecchio al mondo. Per comprendere meglio il fenomeno è opportuno considerare alcuni dati come l’età media attuale pari a 48,4 anni, prevista in crescita a 50,7 anni entro il 2050.
Attualmente, il 23,2% della popolazione ha 65 anni o più, proiettando al 2050 una possibile rappresentanza del 35%. Inoltre la speranza di vita è di 83,1 anni. Questo quadro generale ci fa quanto meno rendere conto della dimensione del fenomeno “invecchiamento” nel nostro Paese e ci pone subito in allarme rispetto al tema dell’assistenza. È lampante che il crescente numero di anziani/e equivale a una conseguente crescente domanda di servizi sanitari, assistenziali e di cura a lungo termine.
Ma come viene gestita la cura in Italia?
La famiglia rappresenta un pilastro cruciale, incarnando ciò che è noto con il nome di modello familista, con politiche statali che incoraggiano attivamente le responsabilità di cura familiare. E con dinamiche di genere che influenzano pesantemente il settore dell'assistenza, spesso relegato alle donne. Questa tendenza si interseca con cambiamenti demografici più ampi che hanno portato a un graduale spostamento delle responsabilità di assistenza verso le popolazioni migranti.
I/Le lavoratori/trici della cura in Italia sono 894.299 persone di cui l’86,4% sono donne e il 69,5% è di origine straniera. Le careworkers straniere provengono soprattutto dall’Est Europa (35,4%), dall’Asia (17,2%) e dall’America Latina (9,9%).
Ma il dato su cui vale la pena soffermarsi è certamente quello relativo all’età media delle careworkers che è pari a 51,3 anni. Scopriamo, dunque, che le lavoratrici della cura che assistono i/le nostri/e anziani/e per la maggior parte sono di mezza età o più grandi e spesso queste donne nel loro paese d’origine hanno intrapreso carriere ben diverse dalle nicchie settoriali che in Italia le vedono coinvolte soprattutto nei lavori domestici oppure nell’assistenza ad anziani/e e bambini/e.
Tuttavia, la cura ha restituito loro libertà e indipendenza, ma a quale prezzo? Il settore dell’assiastenza agli/alle anziani/e conta numerosi problemi: il lavoro in nero, la costante precarietà dei loro contratti che terminano improvvisamente dopo la morte dell’assistito/a, la privacy inesistente, lo sfruttamento ma, il punto su cui ci soffermeremo è legato alle basse retribuzioni del pensionamento. La pensione di una careworkers media vira tra i 250/400 euro che, se consideriamo il caro vita degli ultimi anni, risulta essere un’entrata irrisoria.
È così che questa situazione spinge queste donne a continuare a lavorare in età da pensionamento o post-pensionamento, alcune persino fino al momento in cui la salute non impone grossi impedimenti. Questo solleva una grave contraddizione. Mentre una parte di mondo può godere del pensionamento e delle cure, un’altra parte è costretta a prendersi cura di chi, paradossalmente, ha la stessa età e gli stessi acciacchi psico-fisici, per sfuggire alle insidie della povertà.
Ecco che l’invecchiamento si dimostra essere un’ulteriore terreno di disuguaglianze e paradossali conflitti, in cui le società occidentali continuano a sfruttare il lavoro delle persone provenienti dai paesi più poveri traendone benefici e non restituendo nulla. È altamente conflittuale la posizione degli/delle anziani/e Occidentali e quella degli/delle anziani/e di origine migrante. Il lavoro prende due direzioni completamente diverse.
Se per gli Occidentali il lavoro rappresenta il mezzo per poi godere dei propri sacrifici nell’anzianità, dedicandosi alle attività tra le più disparate, ma anche all’ozio, al riposo e al tempo in famiglia, per le persone di origine migrante il lavoro è sopravvivenza. Soprattutto per le donne che assistono e continuano ad assistere gli/le anziani/e, il lavoro è per sempre e non c’è tempo per il riposo, non c’è tempo per la famiglia, non c’è tempo per la propria vita.
A questo punto l’interrogativo sorge spontaneo: è davvero una società equa, giusta e dignitosa, quella occidentale, che permette il continuo sfruttamento del lavoro di migranti e che divide tra anziani/e privilegiati e anziani/e svantaggiati? Fino a che punto possiamo accettare lo sfruttamento del lavoro di persone anziane?
Quanto è difficile scioperare nel Regno Unito
Veronica Barfucci, vicedirettrice e caporedattrice Asia
“Ci viene detto che dobbiamo lavorare e usare i nostri talenti per produrre ricchezza. “Se un uomo non lavora, che non mangi” scriveva San Paolo ai Tessalonicesi.”
Margareth Thatcher, Discorso all’Assemblea Generale della Chiesa Scozzese, 1988
Il “nemico interno”. Così Margareth Thatcher - Prima ministra britannica dal 1979 al 1990 - definì, in un discorso interno al partito conservatore, il sindacato dei minatori (National Union of Mineworkers, NUM). Come rivelano gli appunti scritti a penna resi pubblici una decina di anni fa, Thatcher era pronta a ripetere questo discorso alla convention del partito conservatore del 1984, paragonando non solo il NUM, ma l’intero partito laburista, a quello che definiva il “nemico esterno” - il generale argentino Galtieri, combattuto e sconfitto nelle Falklands/Malvinas. Soltanto la bomba piazzata da alcuni membri dell’IRA all’interno dell’hotel della convention impedirono che si lanciasse in questo impervio, ma non inaspettato, paragone.
Erano gli anni di uno degli scontri sindacali più lunghi della storia britannica. In risposta al piano di chiudere venti pozzi di carbone - e tagliare oltre ventimila posti di lavori - partendo dallo Yorkshire i minatori britannici incrociarono le braccia per quasi un anno tra le primavere del 1984 e del 1985. Ma l’azione collettiva non riuscì a fermare la sete neoliberista di Thatcher, andata al governo proprio con l’intenzione di annichilire i sindacati e il “socialismo”. E ci riuscì. Il suo governo introdusse una serie di leggi per rendere sempre più difficile scioperare legalmente, i cui effetti si fanno sentire ancora oggi. Se negli anni Settanta in dodici milioni erano iscritti a un sindacato, oggi sono soltanto 6.55 milioni, un quinto della forza lavoro totale.
Gli effetti del thatcherismo sui diritti della classe operaia furono devastanti, ma anche il partito laburista non è esente da colpe. Tornati al governo nella metà degli anni Novanta dopo diciotto anni di dominio conservatore, Tony Blair e Gordon Brown - con il loro il “New Labour” - non modificarono l’assetto normativo messo in piedi da Thatcher e intervennero soltanto in maniera indiretta introducendo il congedo di paternità e maternità e un salario minimo nazional. Ancor peggio, nel 1995 venne rimosso l’articolo 4 (Clause IV) della costituzione del partito, che sanciva l’impegno dello stesso alla nazionalizzazione delle industrie. E dire che erano stati i sindacati stessi a fondare il Labour Party nel 1900.
Scioperare oggi nel Regno Unito è difficile ed estremamente burocratico. Non esiste un “diritto allo sciopero”, bensì una serie di regole che consentono di scioperare legalmente. Leggi che sono tra le più restrittive in Europa, tanto che vengono definite ‘anti-trade union laws’ (leggi anti-sindacati).
I membri del sindacato devono votare, obbligatoriamente per posta, per stabilire se intraprendere l’azione sindacale. E’ necessario non soltanto che la maggioranza voti a favore, ma che almeno il 50% partecipi alla votazione. Ah, se ci fosse così tanto interesse per l’affluenza alle urne alle elezioni politiche! Oltre a dover notificare il datore di lavoro sui tempi e modi dello sciopero almeno 14 giorni prima dell’inizio, i picchetti devono rispettare le regole del ‘peaceful picketing’, che molto spesso significa poterli organizzare in zone molte delimitate. In questo scontro iniquo tra umani, politica e burocrazia, il mancato rispetto di una di queste regole permette ai datori di lavoro di fare causa ai sindacati.
Ciliegina sulla torta, nel corso di un prolungato sciopero dei lavoratori del settore ferroviario guidato dal carismatico sindacalista Mick Lynch, alla fine del 2023 il governo Sunak ha introdotto una legge chiamata Minimum Service Levels. Con il pretesto di proteggere la collettività dai disservizi, la legge limita ancora di più il diritto allo sciopero in alcuni settori, tra cui ferrovie, ambulanze e forze di frontiera. Per esempio, consente agli operatori ferroviari di mantenere fino al 40% dei treni nei giorni di sciopero, di fatto impedendo a chi vuole - e ne avrebbe diritto - di scioperare.
Nonostante tutto, il 2023 è stato un anno di forte agitazione sindacale, con scioperi che hanno coinvolto il settore universitario, sanitario e dei trasporti. E’ stato anche un anno di vittorie, seppure parziali, con le università che sono riuscite a ribaltare un programma di tagli alle pensioni del 30%. La solidarietà sindacale e lo spirito della lotta di classe non sono più quelli degli anni Settanta e Ottanta, con una classe lavoratrice schiacciata dai neoliberisti e tradita da coloro che si professavano “socialisti”. Ma la voglia di lottare non è del tutto perduta.
Uno spazio sicuro per uscire dalla trappola “immaginaria” del lavoro
Alberto Pedrielli, direttore Lo Spiegone
Certo, abbiamo un problema con il lavoro. In Italia, in Europa, negli Stati che inseriscono le loro biografie nella cornice dell’Occidente. Paesi ricchi, lavoratori poveri. Non solo: Democrazie ricche, lavoratori poveri.
Un conflitto in termini apparentemente inspiegabile, data la pretesa di pari diritti e opportunità su cui si basano questi regimi. Ancora più grave, guardando al nostro continente, se pensiamo che fino agli anni Novanta gli studi sulla povertà non osavano contemplare una figura come quella del lavoratore povero.
Le condizioni in questo lasso temporale sono cambiate. La trasformazione post-industriale, la nuova ondata della globalizzazione, l’economia della conoscenza. Tutte tendenze che in un modo o nell’altro hanno spinto nella direzione dell’evanescenza. Di una frammentazione delle prerogative della “modernità pesante”, incentrata sul mito della fabbrica come canale di realizzazione culturale, sociale e politica.
Il lavoro viene a rappresentare quindi un vuoto a perdere non solo sul fronte materiale. In ragione del ruolo che esso occupa negli immaginari nazionali - pensiamo solo all’art. 1 della Costituzione italiana - si capisce bene come la crescita dei cd. bullshit jobs e ancora l’ombra incerta di un’occupazione vacante vengano a intaccare anche il significato profondo dell’esistenza individuale e collettiva.
Gli esseri umani sono infatti prima di tutto cercatori di senso. “La preoccupazione principale dell'uomo non è quella di ottenere piacere o di evitare il dolore, ma piuttosto di vedere un significato nella sua vita”, sosteneva Viktor Frankl. Allo stesso tempo, la nascita di sistemi sociali sempre più complessi porta con sé, per ciascuno di essi, un fardello non da poco: rendere palese la propria necessità.
Come ogni ambito della vita, il lavoro risponde pertanto a una doppia prospettiva. Spazio di affermazione, da un lato. Spazio di legittimazione, dall’altro.
Ed è proprio nel rapporto tra i due che si innesta la miccia tossica. Quella di un meccanismo di senso che, disperdendosi nelle sue prerogative democratiche, si impone tuttavia quale principio ordinatore delle relazioni tout court.
Un coro sempre più ampio di voci evidenzia come le logiche delle organizzazioni, volte alla riproposizione di uno scenario competitivo, stanno infiltrando man mano tutte le comunicazioni del nostro quotidiano. Questa colonizzazione dell’immaginario induce a pensare che ogni scambio debba essere necessariamente finalizzato all’ottenimento di un utile, di un vantaggio da spendere. Il che fa sfumare la differenza tra lavoro e tempo libero.
I rapporti si sovrappongono, così, lasciando ben poco scampo a una realizzazione svincolata dal lavoro, proprio e altrui. L’esempio più paradigmatico sono forse le piattaforme digitali, portale di accesso immediato a una memoria collettiva in cui motivazioni economiche e sociali non sono distinguibili. Come spiegare altrimenti il consumo passivo che caratterizza la maggioranza degli utenti, a fronte di una produzione in mano per lo più a una minoranza creatrice?
L’ineludibile ricerca di significato, tanto online quanto offline, porta l’esperienza a scontrarsi con un ostacolo invalicabile dalla mera prospettiva individuale. Se a orientare il corso degli eventi nei luoghi che abitiamo è il raggiungimento di un utile, questo vuol dire che tutte le barriere della nostra società hanno molteplici possibilità di riprodursi, attraverso la nostra azione. Sia essa più o meno cosciente.
Il rischio è che le reti sociali, invece di incarnare l’alternativa radicale alle catene del valore, finiscano per simboleggiarne il volto umano.
Contrastare questa parabola è una delle sfide di questo passaggio storico. Mi piace pensare che una soluzione possa risiedere negli “spazi sicuri” (safe space), ovvero quei luoghi di condivisione pensati per combattere l’oppressione dei gruppi dominanti. Perché solo uno scambio autonomo, democratico e protetto dalla comunità è davvero capace di opporsi a un padrone del tempo.
👋 Per farci sapere cosa ne pensi di Estera puoi contattarci qui: estera@lospiegone.com
📚 Consigli di lettura:
Coin, F. (2023). Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita. Einaudi.
Corvino, I. (2022). Lavoro, identità e dono. Im@ go. A Journal of the Social Imaginary, (19), 211-225.
Favi Jacopo (2021) Invecchiare. Prospettive antropologiche, Meltemi
PARREÑAS, R. (2015). Servants of Globalization: Migration and Domestic Work, Second Edition. Redwood City: Stanford University Press. https://doi.org/10.1515/9780804796187
Furore di John Steinbeck
Nomadland, libro di Jessica Bruder, Edizioni Clichy
Osservatorio DOMINA sul Lavoro Domestico (2023) "5° Rapporto Annuale sul Lavoro Domestico: Analisi, statistiche, trend nazionali e locali" https://www.osservatoriolavorodomestico.it
Suzman, J. (2021). Lavoro: Una storia culturale e sociale. Il Saggiatore.
🎥 Consigli di visione:
Nomadland, film di Chloé Zhao