😱 La paura fa 90, il terrore 91
Affinità e divergenze tra il metodo terroristico e una giusta lotta socio-politica - n° I, Serie V
Credo che ognuno di noi, se fosse nato in un campo di concentramento e non avesse da cinquant’anni nessuna prospettiva da dare ai figli, sarebbe un terrorista - Giulio Andreotti, ex Presidente del Consiglio
Terrore sì, ma per chi?
Enrico la Forgia, vicedirettore e responsabile newsletter
28 aprile 1855, Parigi, Francia. Ebbene sì, non ve l’aspettate ma questa storia inizia ben 146 anni prima dell’attentato più famoso della storia. Un trentaduenne nato in provincia di Ravenna, Giovanni Pianori, cammina nervosamente sugli Champs Elysée. Con fare sospettoso, Giovanni tiene le mani nelle tasche. Da un lato, quello della mano debole, stringe la foto di Virginia, moglie e madre dei suoi figli, attualmente a Faenza; nell’altra stringe una rivoltella. L’empereur, Napoleone III, colui che sei anni prima - nel 1849 - aveva soppresso nel sangue l’esperienza democratica della Repubblica romana, sta cavalcando spensierato. Due respiri profondi, il passo affrettato, Giovanni si è fatto strada tra la folla, la mano stringe la rivoltella, la sfila, prende la mira e spara due colpi. Qualche secondo e cade a terra. “Ne le tuez pas! (non uccidetelo)”. È la voce dell’Imperatore, spaventato ma illeso e intenzionato a scoprire chi e perché voleva ucciderlo.
Il 7 maggio 1855 Giovanni fu condannato a morte e fucilato, dopo un processo tenutosi in lingua francese, senza interprete, e aggravato da accuse - poi rivelatesi false - giunte alle autorità francesi da quelle Vaticane, a cui Pianori non piaceva affatto. La figura di Pianori, passata alla storia come il primo terrorista (termine usato dall’accusa), è in realtà molto complessa. Ci sarebbero addirittura i margini per definirlo un patriota, vista la sua partecipazione all’instaurazione della Repubblica romana e alla Prima guerra d’indipendenza.
146 anni dopo, l’11 settembre 2001, la mia generazione assisterà all’interruzione della Melevisione - e alla conseguente fine dell’infanzia - per apprendere che il World Trade Center (le Torri gemelle) è stato colpito da due aeroplani. Il bilancio è terrificante: quasi tremila morti e l’idea di sicurezza che cambia radicalmente. È l'inizio della “War on Terror”, delle sue conseguenze internazionali (come l’illegale invasione dell’Iraq) e di quelle domestiche. La Guerra globale al terrorismo, infatti, diventa un’ottima scusa per tornare a praticare il controllo nevrotico delle opposizioni extra istituzionali interne. Una scelta giustificata, agli occhi degli Stati, anche dalle violenze di Seattle 1999 (che diedero inizio a un nuovo metodo di gestione delle proteste), Genova 2001 e il ricordo dei riots di L.A del 1992…dalla paura delle quinte colonne comuniste, a quella del terrorismo, di varia matrice..
In realtà la storia del termine si è evoluta di pari passo col suo utilizzo. Terrorista era l’espressione con cui furono definite diverse figure e organizzazioni nel corso della storia. Gaetano Bresci era un terrorista perché aveva ucciso Umberto I, ma quest’ultimo e il generale Bava Beccaris non lo erano, anche se nel 1898 presero a cannonate la popolazione civile scesa in strada per protestare contro l’aumento del prezzo del pane. Terroristi erano i partigiani italiani durante la Seconda guerra mondiale, agli occhi degli occupanti nazisti. Oggi li celebriamo, giustamente, per averci portato fuori dall’incubo del ventennio. Terroristi erano i brigatisti e i NAR della Strage di Bologna, ma da modalità di azione e obiettivi tanto diversi che sentiamo l’esigenza di doverli qualificare ulteriormente: terroristi rossi, da un lato; terroristi neri, dall’altro. Ma terroristi erano anche i militanti della Irish Republican Army, eccetera eccetera.
Viviamo in un mondo in cui la differenza tra ciò che terrorismo è o meno è così sottile che alle volte la si dimentica e si fa confusione.
Che sia ben chiaro: qua nessuno ha mai esultato per la morte di civili né si è mai auspicato la violenza come metodo politico. Ci sorgono piuttosto delle domande: cosa e chi è un terrorista, chi è a stabilirlo e perché?
Al momento, è definito terrorismo “L’uso di violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e a destabilizzarne o restaurarne l’ordine, mediante azioni quali attentati, rapimenti, dirottamenti di aerei e simili”. Molto chiara no? Eppure, lo stesso Diritto internazionale che lo stabilisce indica due eccezioni all’applicazione della nozione: alle situazioni di conflitto armato (e quindi, tra l’altro, alle guerre di liberazione nazionale, legittimate dal principio di autodeterminazione dei popoli) e alle attività svolte dalle forze ufficiali di uno Stato nell’esercizio delle loro funzioni pubbliche (cosiddetto terrorismo di Stato)”.
Sorge spontaneo il chiedersi perché, ad esempio, Hamas, che si è macchiata di crimini efferati il 7 ottobre - ma anche prima - è riconosciuta come organizzazione terroristica mentre Israele, Stato che si è macchiato di crimini efferati dal 1949 in poi, non lo è? Perché i ceceni che nel 2002 presero in ostaggio gli spettatori del Teatro Dubrovka sono terroristi e le forze speciali russe che hanno pompato agenti chimici nello stesso teatro uccidendo centinaia di persone no? Che giri tutto intorno alla legittimità (presunta) dello Stato e del monopolio della forza? Chissà…
Come sempre, qui su Estera non troverete risposte certe, ma casi studio e riflessioni che proveranno a sviscerare il concetto di terrorismo, della sua storia e del significato politico che lo caratterizza. La nostra idea è quella di diffidare di sterili definizioni fornite dalle autorità. E allo stesso tempo, di approfondire tematiche complesse che non possono essere ridotte a dinamiche fantasiose, quasi religiose, di battaglie tra il bene e il male. Speriamo in qualche modo di esservi utili e, magari, di sentire la vostra opinione a riguardo.
Le tappe del numero:
🦅 “La paura fa 90, il terrore 91” non poteva che iniziare con un articolo sugli Stati Uniti di Laura Santilli, nostra caporedattrice di Nord America, e sulla “Guerra globale al terrorismo”. In questo primo pezzo potrete leggere l’analisi dell’autrice sull’11 settembre e i suoi effetti da un lato sulla società statunitense, dall’altro sulla politica estera della Casa Bianca.
🔫 Il terrorismo, nell’immaginario collettivo, è sempre più sinonimo di fanatismo religioso (spesso l’Islam) e di luoghi lontani, violenti, quasi primordiali. Tuttavia spesso ciò non è vero. Nel secondo pezzo di questo numero di Estera, il direttore Alberto Pedrielli riflette sui legami tra immigrazione, complottismo, suprematismo bianco e terrorismo.
🌍 Chiude le danze il contributo della nostra caporedattrice Medio Oriente e Nord Africa, Viola Pacini, che oggi ha deciso di dedicare alcune righe ai terroristi del momento: gli Houthi. Partendo dalle ultime prese del gruppo yemenita, l’autrice riflette sulle logiche e i meccanismi che possono portare all’inserimento di una milizia nella lista delle organizzazioni terroristiche.
Guerra globale al terrorismo
Laura Santilli, caporedattrice Nord America
Il documento sulla strategia di salute pubblica sulle conseguenze psicologiche del terrorismo, dell’Istituto di Medicina statunitense spiega: «Il terrorismo ha lo scopo di provocare paura e incertezza collettiva. [...] La comprensione delle conseguenze psicologiche di un evento terroristico è fondamentale per gli sforzi della nazione di sviluppare strategie di intervento nelle fasi di pre-evento, evento e post-evento che limitino gli effetti psicologici negativi del terrorismo».
«Oltre alla caratteristica distintiva dell'intento, il terrorismo può disturbare in modo unico il funzionamento della società. Questo ha la capacità di erodere il senso di comunità o di sicurezza nazionale, di danneggiare il morale e la coesione e di aprire le crepe razziali o etniche, economiche e religiose che esistono nella nostra società, come dimostra l'aumento dei crimini di odio dopo gli attacchi dell'11 settembre 2001».
Gli attentati alle Torri Gemelle e al Pentagono hanno costituito un punto di non ritorno per l’allora amministrazione Bush, per il popolo statunitense e per il modo in cui il resto del mondo iniziò a guardare gli Stati Uniti che, all’inizio del XXI secolo, erano lo Stato più potente nel mondo sia militarmente, sia economicamente. Tuttavia essi non furono in grado di prevenire un attacco terroristico devastante portato avanti da un gruppo non statale di terroristi che operavano prevalentemente dal territorio di uno dei Paesi più poveri al mondo, l’Afghanistan. L’intero concetto di sicurezza degli Stati Uniti fu stravolto.
La letteratura, accademica e non, è ricca di volumi su questo periodo storico, che descrivono un Paese che da quel momento sarebbe cambiato, non sarebbe stato più se stesso. Il desiderio di vendicare gli attentati ed evitare che un evento simile potesse ripetersi sul suolo statunitense è stato prepotentemente diretto tuttavia, verso un’iperpotenza e un unilateralismo che hanno rivelato che gli Usa non sono cambiati l’11 settembre, sono solo diventati più loro stessi.
L’11 settembre 2001, dopo gli attentati, la pallina era ferma sul piano più alto del piano inclinato. L’amministrazione Bush decise di lanciarla e questa è caduta velocemente, in modo irreversibile.
Il trauma di quegli eventi e il sentimento di vulnerabilità dei mesi successivi che le cittadine e i cittadini statunitensi provarono non furono rielaborati collettivamente, attraverso un processo certamente difficile, ma necessario anche per comprendere l’eccezionalità di quegli eventi.
La politologa statunitense Joan C. Tronto mi raccontò in un’intervista che «il giorno dopo la caduta delle torri gemelle a New York, il presidente George W. Bush disse alle persone: “Andate a fare shopping!”. Avremmo avuto bisogno di sentirci dire molte cose, ma egli scelse di dirci di tornare alla nostra normalità, di andare a fare shopping».
L’amministrazione Bush decise di esternalizzare la paura, la rabbia e di unire il Paese verso un nemico specifico: il terrorismo, i terroristi e di dichiarargli guerra. L’idea di guerra al terrorismo riporta al tradizionale concetto di eccezionalità statunitense, secondo cui gli Stati Uniti si considerano un Paese unico e diverso e questo si ritrova nella presunta possibilità statunitense di sottrarsi al corso della storia a cui, invece, tutti gli altri Paesi andrebbero incontro. Questa convinzione conferisce agli Stati Uniti un’ambizione universalista e un approccio alle relazioni internazionali che ha un carattere messianico: sarebbe infatti loro compito e destino quello di intervenire per plasmare e trasformare l’ordine internazionale in accordo con i propri principi, valori e interessi.
È anche seguendo questi ideali che, dal 2002, la guerra al terrorismo è diventata poi, guerra preventiva. Perché, come spiega lo stesso George W. Bush nella sua biografia Decision Points: «La lezione dell’11 settembre ci ha insegnato che se attendiamo troppo che un pericolo si materializzi, dopo sarà troppo tardi».
La volontà di perseguire la guerra in Iraq senza la legittimazione delle Nazioni Unite e quindi completamente al di fuori di ogni principio del diritto internazionale ha rivelato che da quel momento gli Usa avrebbero agito da soli e nel loro proprio e unico interesse. Creando, negli anni, una serie di doppi standard all’interno della Comunità internazionale dei cui effetti pericolosi essi non hanno mai risposto. Non riconoscendone neanche, forse, la piena responsabilità.
Lo squadrismo alla Scala, prossimamente fuori
Alberto Pedrielli, direttore
«STOP SOSTITUZIONE ETNICA» annuncia a caratteri ben visibili il titolo del volantino. Siamo a Milano, nell’aprile 2024. La firma, Forza Nuova. Organizzazione fascista che continua a manifestarsi in pubblico, contro ogni principio di dignità, per due motivi principali. Compiere atti di squadrismo, come l’assalto alla sede della Cgil. E promuovere la propaganda del suprematismo bianco. Come la teoria cospirativa della sostituzione etnica, appunto.
Il luogo prescelto per il ritrovo è importante.
È soprattutto quello che mi ha spinto a partire da qui, tra l’imbarazzo delle opzioni sul tavolo - arricchite dalla recente inchiesta di Fanpage. Piazza della Scala, uno dei palcoscenici più celebri in questo spicchio di mondo. Quello perfetto per protestare «contro l’inclusione che denaturalizza la nostra cultura e storia», ovvero quella che ci minaccia perché ci renderebbe meno bianchi. Ma non c’è solo questo.
Facciamo un passo indietro. Non è facile datare la nascita del mito della sostituzione etnica. Un punto di origine potrebbe essere il romanzo distopico “Il campo dei Santi”, pubblicato nel 1973, che racconta dello sbarco in Francia di uno stormo di migranti indiani. I quali, una volta approdati al continente europeo, non esitano a sterminare i maschi e a stuprare sistematicamente le donne. L’autore, Jean Raspail, qualche tempo dopo, darà alle stampe “Saremo ancora francesi tra 30 anni?”, in cui teorizza il nucleo fondativo del Grand replacement, riformulato nel 2011 da Renaud Camus. E poi dalle dimore digitali dell’alt-right e poi, e poi.
Sarà solo questione di tempo prima che la destra istituzionalizzata, compresa quella italiana, si impossessi di questa narrazione.
Intanto, i terroristi si muovono. A Macerata, nel 2018, Luca Traini apre il fuoco mentre percorre le cosiddette “strade dello spaccio”. Il suo bersaglio è chiaro: a rimanere ferite saranno alla fine 6 persone originarie dell’Africa subsahariana. L’attentato segue l’omicidio di Pamela Mastropietro e una campagna di profilazione razziale del colpevole, delineato da subito come “pusher stupratore di origine africana”. Traini, con un passato leghista e un presente vicino a Forza Nuova e CasaPound, non ci pensa due volte per vestire i panni del giustiziere.
Il caso di Macerata, come sostiene Elena Corsi, è emblematico per comprendere il volto dell’ideologia suprematista bianca. Che come tutti i progetti politici ha un nemico, un obiettivo e un metodo.
Il nemico risponde all’identikit appena tracciato. Le altre etnie sono considerate inferiori, in grado di produrre solamente soggettività non civilizzate e quindi incapaci di controllare i propri istinti, in primis quello sessuale. L’obiettivo è quello di preservare la nazione, bianca e patriarcale, da chi ne può minacciare la purezza e il grado di civilizzazione. La violenza contro le donne metterebbe in discussione tutto questo, alla radice. Perché andrebbe a ledere la figura della procreatrice che, in questo disegno, rappresenta la perfetta allegoria della patria.
Ecco cosa significa quel «denaturalizzare». Un’espressione che dietro un velo di genuinità (cosa c’è di più naturale della natura?) nasconde la fonte sociale dell’oppressione. Lo stesso faro che guida i leader politici italiani nel momento in cui, grazie al loro potere, alzano il volume alle tesi che sostengono Forza Nuova o qualsiasi altro gruppo nazifascista. Contrastare la sostituzione etnica è ormai diventato un imperativo di Stato.
Un tassello fondamentale è rimasto in sospeso. Il metodo, o per meglio dire la “cornice” del metodo.
Quella che ha messo in pratica il fascista di Macerata potremmo definirla come una forma di giustizia extragiudiziaria. Una giustizia fai-da-te, cui Traini ha fatto ricorso sentendosi legittimato a farlo. Questo fa venire meno la sua responsabilità penale? Ovviamente, no. Ma allarga il cerchio delle responsabilità politiche, per allora e per il poi.
Perché il suprematismo bianco è ancora vivo e vegeto.
La nostra democrazia, alla Scala e fuori, forse non altrettanto.
Houthi: oltre la dicotomia buoni e cattivi
Viola Pacini, caporedattrice MENA
Quando un gruppo armato è un’organizzazione terroristica e quando invece non lo è? La risposta si trova quasi sempre nel punto di vista. Chi ne condivide ideali e obiettivi tenderà a vedere questo ipotetico gruppo come giusto, persino eroico, mentre coloro che si trovano dall’altro lato della barricata probabilmente lo dipingeranno come un’orda di crudeli e feroci assassini.
Qualcosa del genere sta succedendo agli Houthi, noti anche con il nome di Ansar Allah, che controllano lo Yemen settentrionale. In risposta all’assedio di Gaza, il gruppo yemenita ha iniziato una serie di attacchi contro le imbarcazioni legate a Israele e ai Paesi che supportano lo Stato ebraico nello stretto strategico di Bab al-Mandeb (Porta del lamento funebre).
Gli Stati Uniti hanno quindi ufficialmente designato gli Houthi come terroristi, presentando le loro azioni come una minaccia alla sicurezza e al libero commercio, mentre una coalizione internazionale ha iniziato a bombardare lo Yemen del nord, nonostante l’area sia già in ginocchio dopo anni di guerra e carestia. Coloro che supportano la Palestina, soprattutto le popolazioni civili, hanno invece visto negli Houthi l’unica entità ad aver fatto qualcosa di concreto per i gazawi. Le condizioni estreme in cui si trova lo Yemen non hanno fatto altro che aggiungere un tono ancora più epico al blocco navale. Nonostante siano tra i più poveri dell’area, gli yemeniti si sono impegnati in difesa dei palestinesi e neppure i bombardamenti statunitensi e britannici sono stati in grado di incrinare la loro determinazione.
Effettivamente, Ansar Allah non sta facendo nulla di assurdo nelle dinamiche della politica internazionale. Se un alleato viene attaccato, si interviene a suo favore. Governi e attori para-statali lo fanno regolarmente. Il fatto che gli Houthi non abbiano rappresentanti presso le grandi organizzazioni internazionali non rende le loro azioni meno legittime.
Ma quindi, gli Houthi sono degli eroi senza macchia e senza paura che combattono per la libertà dei popoli? Non esattamente. Humans Right Watch e Amnesty International hanno più volte denunciato violazioni di diritti umani compiute dal gruppo. Tra le quali vi sono uso di armi proibite dalle convenzioni internazionali, reclutamento di minorenni come soldati, repressione delle libertà per le donne, condanne capitali per persone LGBTQ+, arresti arbitrari e torture.
Allora hanno ragione gli Stati Uniti, si tratta di un gruppo di malvagi terroristi da bombardare? La situazione è più complicata di così. Rappresentare delle persone come personaggi monodimensionali (eroi da supportare indiscriminatamente o mostri malvagi da distruggere) funziona solo nei racconti di fantasia. Per comprendere la realtà è necessario inserire gli individui e i gruppi di cui fanno parte nel loro contesto, tenendo conto delle influenze interne ed esterne.
Pertanto, non dobbiamo chiederci se gli Houthi (o qualsiasi altra entità) siano i buoni o i cattivi. Le questioni sulle quali è necessario riflettere sono altre: a quali bisogni risponde il gruppo? Cosa spinge le persone a supportarlo, nonostante sul fronte interno le loro azioni siano così deplorevoli? Perché hanno adottato una certa ideologia?
Cercare di comprendere persone così diverse da noi non è certo semplice, perché costringe a mettere momentaneamente da parte molti degli ideali in cui crediamo fermamente. Inoltre, rispondere a queste domande probabilmente richiederebbe che vari Paesi si guardino allo specchio. E riflettano sul fatto che una tale ostilità da parte degli Houthi non è nata in un vuoto, ma in un contesto preciso dal quale coloro che adesso puntano il dito contro lo Yemen settentrionale non possono esonerarsi.
Tuttavia, insistere nel filtrare la realtà in modo binario (se la pensi come me sei buono, altrimenti sei cattivo) non può che portare a un vicolo cieco.
👉 Lo Spiegone, nei suoi otto anni di vita ha dedicato ampio spazio all’osservazione sistematica di alcune delle principali organizzazioni terroristiche. Qui trovate una carrellata di articoli pertinenti al tema:
-Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina
-Partito dei Lavoratori del Kurdistan
👋 Per farci sapere cosa ne pensi di Estera puoi contattarci qui: estera@lospiegone.com
📚 Consigli di lettura:
Bacevich, A.J. The Limits of Power. The End of American Exceptionalism, (New York: Henry Holt and Company, 2009).
De Angelis, E. (2007). Guerra e mass media. Carocci.
Didion, J. Idee fisse, (Milano: il Saggiatore, 2003).
Kagan, R. Of Paradise and power, (New York: Knopf Doubleday Publishing Group, 2003).
Kelkar, K. “When it comes to defining ‘terrorism,’ there is no consensus”, PBS News, 26/02/2017
Nichols, T., “The meaning of terrorism”, The Atlantic, 26/10/2023
Schmid, A. (2004). Terrorism-the definitional problem. Case W. Res. J. Int’l L., 36, 375.
Per delucidazioni a livello legale: The practical guide to humanitarian law. Terrorism.