⚖️ La legge del più forte
Il Diritto internazionale calpestato dalla geopolitica - Estera, n° II, serie VI
“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.”
Tancredi, personaggio de “Il Gattopardo” (1958) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Il Palazzo di vetro: un'altra arena per le potenze globali
Enrico la Forgia, vicedirettore e responsabile newsletter
Il 25 aprile 1945, a pochi giorni dalla fine della Seconda guerra mondiale in Europa e a pochi mesi dalla sua conclusione in Asia, i rappresentanti di 50 governi si incontrarono a San Francisco per redigere quella che verrà ribattezzata Carta delle Nazioni Unite. Il documento fu pensato con l'obiettivo di regolare il fragilissimo sistema mondo che stava emergendo dalle ceneri del conflitto.
L'organizzazione internazionale che nascerà da tale processo, ovvero l'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) - 51 membri nel 1945, 193 nel 2011 -, sarà solo l'ennesimo tentativo di regolare le relazioni internazionali fornendo agli Stati una cornice entro la quale risolvere le proprie controversie senza ricorrere alla violenza. Di fatto, l'ONU sostituì la precedente Società delle Nazioni, considerata inefficiente e non rappresentativa (diverse Nazioni non ne facevano parte, come gli USA), e fu quindi dotata di strumenti considerati utili nel mantenimento della pace e della sicurezza.
Oggi, nel 2024, sarebbe ingiusto etichettare l’ONU come “inutile” (anche se fa ridere). Eppure appaiono sempre più chiare le sue debolezze.
Una delle critiche più comuni - avanzata spesso dai Paesi del Sud Globale e perno di questa introduzione di Estera - è stata rivolta al Palazzo di Vetro di New York (dove ha sede l'ONU) a causa degli squilibri interni, a livello di rappresentatività ed effettiva influenza nelle istituzioni, che sembrano favorire alcuni Stati a scapito di altri. Un caso particolare è il Consiglio di Sicurezza ONU, l'organo incaricato del mantenimento della pace.
Composto da 15 membri con diritto di voto (10 in rappresentanza a rotazione e 5 membri permanenti) il Consiglio di Sicurezza dell'ONU è stato definito più di una volta uno strumento di potere sul quale le potenze esercitano un’influenza eccessiva, a scapito del corretto funzionamento dell'organo in sé. Nonostante la struttura del Consiglio di Sicurezza stessa appaia come poco rappresentativa - ad esempio sono presenti un numero di seggi per Paesi europei superiore a quelli per i Paesi africani e asiatici, più numerosi e popolosi -, il principale oggetto di critiche da parte dei detrattori rimane il potere di veto dei membri permanenti, guarda caso le principali potenze globali (o imperialiste se preferite). Stati Uniti, Cina, Regno Unito, Francia e Russia godono della possibilità di bloccare una qualsiasi risoluzione del Consiglio di Sicurezza (regolamenti sugli armamenti, embarghi economici nei confronti di Stati che violano il diritto internazionale, azioni militari volti a dissuadere un invasore e a proteggere la sovranità di uno Stato sotto attacco, ecc) tramite il proprio voto: il voto contrario di un solo membro permanente e la risoluzione non passa. L'idea di fondo è che gli Stati vincitori della Seconda guerra mondiale godono di maggiore influenza e responsabilità nei confronti del mondo. Influenza e responsabilità che spesso però vengono traslate nella sfera degli interessi geopolitici, dove emerge la natura dei membri permanenti, ovvero di violente potenze imperialiste.
Non sorprende quindi come il Consiglio di Sicurezza Onu venga disarmato a colpi di veto a protezione degli interessi nazionali (dal 1945 è successo ben 279 volte). È il caso ad esempio della guerra in Ucraina, dove la Russia riesce a proteggere i propri interessi nazionali bocciando ogni tipo di risoluzione; pratica perseguita anche dagli Stati Uniti ogni qualvolta che a presentare una proposta di risoluzione è la Cina e viceversa. È il caso anche del genocidio attualmente in corso in Palestina, con Israele protetta nella maggior parte dei casi da Stati Uniti e Regno Unito, Paesi che vedono in Tel Aviv un alleato attraverso il quale mandare avanti la propria agenda mediorientale, anche a scapito della popolazione civile. Ma è anche il caso dei calcoli politici e delle alleanze sottobanco che si creano ogni volta che il Consiglio di Sicurezza si avvicina alle elezioni dei propri membri non permanenti. Oppure ogni volta che viene presa in esame la possibilità di ampliare il numero di membri permanenti. La Cina ostacola Giappone e India che ricambiano, la Germania usa la carta dei finanziamenti all'ONU per guadagnarsi un posto permanente mentre l’Italia preferirebbe piuttosto un seggio per l’Unione europea.
Il Palazzo di Vetro appare quindi come l'ennesima arena dove le potenze imperialiste si sfidano a protezione dei propri interessi. Cambiano i seggi del Consiglio, cambiano gli scenari di guerra e le rivalità sullo scacchiere globale ma le dinamiche rimangono le stesse: la pace da garantire rimane una prerogativa dei Paesi meglio armati, più violenti, più inclini all'uso della forza. A pagarne il prezzo sono gli Stati meno influenti ma soprattutto i civili. Chiedete ai palestinesi, chiedete agli ucraini. Ed è così che, nei momenti di crisi più acuta, quando l'ONU più dovrebbe contare, ignorare le istituzioni internazionali (o attaccarle fisicamente come fa Israele) diventa lecito.
Noi speriamo che altre autorevoli istituzioni internazionali riescano a garantire giustizia (magari con Netanyahu e Putin a l’Aia) o che le spinte riformatrici assicurino equilibri più giusti, ma forse rimangono speranze vane. In questo numero di Estera, più che sperare, però, volevamo offrire il nostro punto di vista sul Diritto internazionale, i suoi organi, le sue criticità, offrendo spunti per capire dove, come, quando e perché la macchina del diritto si inceppa, favorendo la violenza imperialista di un attore o di un altro.
Le Tappe del numero:
🌲 Uno dei punti salienti di questo numero di Estera è sicuramente Israele e il suo modo di relazionarsi (diciamo pure così) con le Nazioni Unite, i suoi organi, i suoi rappresentanti e le sue missioni. Manuel Mezzadra, autore della redazione MENA, parte dal caso di UNIFIL e - con un longform diviso in due parti - ne analizza la storia, gli obiettivi e il funzionamento per poi collegarlo alla lunga storia di violazioni di risoluzioni ONU e del Diritto internazionale (per non parlare delle aggressioni fisiche e morali) da parte di Israele.
🦅 Se si parla di violazioni del Diritto internazionale e di doppi standard gli Stati Uniti non possono assolutamente mancare. Laura Santilli, caporedattrice Nord America, contribuisce al numero di oggi con una riflessione personale sulla “War on Terror” che da oltre vent’anni viene utilizzata come scusa da Washigton per condurre guerre illegali secondo l’ordinamento internazionale.
🛳️ In conclusione, invece, trovate l’introduzione dell’ultimo articolo del direttore, Alberto Pedrielli, sul “modello Albania” e le criticità evidenziate dalla magistratura. Un contributo interessante per comprendere meglio come il Diritto internazionale si applica anche alle persone - in questo caso i migranti - e non solo alle relazioni tra Stati. ***Non preoccupatevi, troverete anche il link all’articolo completo!***
Buona lettura,
Attacchi contro UNIFIL: sulla linea blu di fronti ostili
Manuel Mezzadra, autore MENA
Come già ricordato nel precedente numero di Estera, nell’ultimo anno i media hanno coperto così intensamente le questioni mediorientali da farci perdere di vista il quadro generale della situazione. Recentemente, a seguito degli attacchi di Israele contro UNIFIL nel sud del Libano, diverse denunce internazionali hanno riportato l'attenzione sulla missione e il suo mandato, con approfondimenti sui peacekeeper feriti. Tuttavia, si rischia ancora di trascurare alcuni elementi chiave del contesto.
Parafrasando quanto detto dal Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres a poche settimane dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023: bisogna ricordare che tutto ciò non sta “avvenendo nel vuoto”. Anche gli attacchi nei confronti di UNIFIL si inseriscono in un più ampio contesto di delegittimazione del diritto internazionale, dei suoi apparati e strumenti sistematicamente portato avanti da decenni da parte di Israele. Processo che a partire dal 7 ottobre ha visto un’accelerazione preoccupante ma che ripropone logiche e dinamiche già viste in passato, sebbene con una frequenza e veemenza del tutto eccezionali.
Abbiamo già scritto della storia e delle regole di ingaggio di UNIFIL. Basti però ricordare che la missione fu istituita nel 1978 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in seguito all’invasione del Libano da parte delle truppe israeliane. Inizialmente costituita sulla base delle risoluzioni 425/426 (1978) come forza di interposizione a supporto dell’esercito libanese e come strumento di cooperazione internazionale per il ritiro delle truppe israeliane e del ripristino della pace e sicurezza, UNIFIL ha visto il suo mandato esteso a più riprese. L’estensione più significativa al mandato della missione fu quella del 2006 con la risoluzione 1701, a seguito della guerra fra Israele ed Hezbollah. Dal 2006 dunque UNIFIL si pone anche l'obiettivo di monitorare la cessazione delle ostilità tra Israele e Libano e supportare le forze armate libanesi a diventare l’unica entità armata nella zona fra la linea blu (quella che de facto, ma non de iure, rappresenta il confine fra Israele e Libano) e il fiume Litani. Le attività di UNIFIL devono essere coordinate con i governi di Libano e Israele, garantendo una gestione efficace delle operazioni. Inoltre, UNIFIL dovrebbe agevolare le forniture di assistenza umanitaria alle popolazioni civili e promuovere il ritorno sicuro e volontario degli sfollati.
Nel corso degli anni, la missione UNIFIL ha ricevuto numerose critiche sia da Hezbollah (e dal Libano in generale) che da Israele, i quali accusano la missione di non fare abbastanza per far rispettare la risoluzione 1701 alla controparte. L'efficacia della missione, infatti, è stata a lungo condizionata dagli atteggiamenti spesso non collaborativi di entrambe le parti, che hanno violato costantemente le regole di ingaggio nel sud del Libano e ostacolato per anni la piena implementazione del mandato di UNIFIL.
Seppur fra critiche e dispute tra le parti, il mandato di UNIFIL è stato costantemente rinnovato dal Consiglio di Sicurezza (non senza frizioni interne). Nonostante ciò, si devono a UNIFIL due importanti risultati: quello di essere l’unico attore sovranazionale ad occuparsi di un monitoraggio minuzioso e la registrazione costante delle violazioni commesse dalle parti, e l’aver facilitato la mediazione fra le Forze Armate Libanesi e le Forze di Difesa Israeliane. Quest’ultima rappresenta una funzione essenziale poiché non esistono canali di comunicazione ufficiale fra il governo libanese e quello israeliano. Da non sottovalutare anche il ruolo del monitoraggio fra le parti, dato che Israele solo fra il 2007 e il 2022 ha commesse ben 22.355 violazioni dello spazio aereo libanese.
I recenti attacchi israeliani su alcune postazioni UNIFIL nel sud del Libano si inseriscono dunque in questo contesto: in un difficile equilibrio fra le parti che viene reiterato da decenni seguendo determinate regole d’ingaggio. Tuttavia, a contribuire all’escalation ci hanno pensato gli avvenimenti dell’ultimo anno, ed in particolare la totale impunità con cui il governo israeliano si sta facendo beffa del sistema del diritto internazionale e delle sue istituzioni. Questo sta creando un precedente tanto ingombrante quanto scomodo che andrà probabilmente a ridefinire alcuni assetti del sistema globale come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi.
Israele contro UNIFIL, Israele contro tutti
Manuel Mezzadra, autore MENA
Sebbene gli attacchi contro UNIFIL lascino sgomenti e abbiano provocato una certa reazione nella sopita opinione pubblica globale, soprattutto europea, e ancora di più italiana (si ricordi che l’Italia contribuisce da decenni con circa 1000 unità di personale sulle circa 10.000 dispiegate nella missione), non bisogna dimenticare che non si tratta dei primi attacchi diretti nei confronti delle Nazioni Unite.
Da mesi a Gaza Israele continua a bloccare le forniture di aiuti umanitari da parte di UNRWA, OCHA, WFP, OMS e altre agenzie, in alcuni casi attaccando direttamente i convogli, le infrastrutture o gli operatori umanitari. Quando il lavoro delle organizzazioni internazionali non viene bloccato con le armi, Israele gioca i suoi assi nella manica conscio del cieco appoggio di gran parte dei Paesi occidentali, come nel caso delle accuse rivolte a UNRWA e ad alcuni suoi operatori sospettati di aver partecipato agli attacchi del 7 ottobre. Accuse che per mesi hanno fatto sì che i diversi paesi contribuenti sospendessero i loro fondi all’agenzia, lasciando milioni di palestinesi nella regione senza i servizi di cui avevano bisogno.
Tutto ciò denota ancora il doppio standard a cui è soggetta tutta questa narrazione: nel giro di poche ore i gravissimi attacchi contro UNIFIL sono stati giustamente etichettati come violazione del diritto internazionale quasi all’unanimità dai paesi europei, mentre le altrettante violazioni a cui da mesi assistiamo a Gaza hanno purtroppo ricevuto ben più vaghe attenzioni.
I meccanismi di delegittimazione portati avanti da Israele nei confronti di UNIFIL sono gli stessi che abbiamo visto negli ultimi mesi a Gaza e in Libano, e che continuano a essere usati come giustificazione per una serie di attacchi indiscriminati (proibiti dal diritto internazionale). Personale UNIFIL come “scudo umano” di Hezbollah o postazioni delle Nazioni Unite “nelle cui circostanze opera Hezbollah” risuonano come mantra vuoti a cui solo una becera propaganda può dare adito. Il problema è che queste affermazioni influenzano vere e proprie politiche e azioni del governo israeliano che, reiteriamo, continua a perseguire una campagna sconsiderata su diversi fronti, caratterizzata da obiettivi ambigui, discutibili e difficili da realizzare.
Infine, è forse ironico (o cinico?) notare come Israele, creato nel 1948 anche grazie al supporto delle Nazioni Unite, oggi mantenga rapporti sempre più tesi con la stessa istituzione, e con gli organismi e strumenti del diritto internazionale che esse rappresentato. Il dilemma si estende su scala più ampia: Israele è accusato di genocidio presso la Corte Internazionale di Giustizia e alcuni membri del governo, incluso il Primo ministro, sono oggetto di indagini presso la Corte Penale Internazionale, con richieste di mandati di arresto. Tuttavia, nonostante un ampio consenso internazionale sui principi di giustizia e ordine globale, la pressione esercitata su Israele è molto meno incisiva rispetto a quella applicata in passato in altre circostanze, come quello dell’apartheid in Sudafrica.
La vera domanda è fino a che punto la comunità internazionale è disposta a tollerare queste violazioni delle regole che si è data dal dopoguerra ad oggi per evitare che “la storia si ripeta”? Quanto ancora l’impunità e il cieco appoggio nei confronti d’Israele possono andare avanti prima di rendere inutili decenni di diplomazia e ordine internazionale sulla base di un diritto comune?
“Nessun organismo internazionale è al di sopra della nostra sovranità”
Laura Santilli, caporedattrice Nord America
Mai avrei pensato di dover ringraziare un membro del partito repubblicano, della corrente cristiana-evangelica, per aver espresso pubblicamente un paragone, forse indicibile per alcuni, a cui avevo pensato e che mi torna spesso in mente dal 7 ottobre 2023.
Mike Johnson, speaker della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti dal 23 ottobre 2023, in un discorso tenuto all’ambasciata israeliana, racconta così l’appoggio statunitense a Israele nel genocidio in corso a Gaza: «Dopo l'11 settembre, Israele è stato al nostro fianco, offrendo sostegno e assistenza. Il 7 ottobre, Israele ha subito il suo personale e identico barbaro attacco. I terroristi (Hamas) sono supportati dal regime in Iran e dalle Nazioni Unite, che gli consentono di comunicare le loro idee. È fondamentale essere solidali con Israele e parlare con chiarezza e convinzione come mai prima d'ora».
Dall’11 settembre 2001, gli elementi dell’operazione che sommati ad altri hanno portato i Paesi appartenenti alla comunità di Stati occidentali a rispondere alla violenza solo con altra furia violenta, prima con guerre preventive e ora con un genocidio, sono sempre gli stessi: terrorrismo + Stati dell’ “Asse del male” (Iraq, Iran, Corea del Nord) + violazione seriale dei principi e delle norme del diritto internazionale.
In nome della lotta al terrorismo gli Stati Uniti hanno combattuto una guerra lunga venti anni che ha portato alla morte, diretta o indiretta di 4.7 milioni persone, all’allontanamento dal proprio Paese di origine di 3.8 milioni di persone.
Una guerra mai autorizzata dalle Nazioni Unite anche perché la lotta al terrorismo non è disciplinata dal diritto internazionale, per il quale la nozione di terorrismo non esiste e questo, dunque, non è un crimine di per sè. Certamente esso è un atto criminale, ma è necessario qualificarlo attraverso gli organismi esistenti di diritto internazionale. Un procedimento a oggi ancora fermo perché negli ultimi sessantacinque anni, i Paesi occidentali non sono stati in grado di arrivare a una definizione comune di terrorismo. Un vuoto normativo comodo verrebbe da dire, se guardiamo agli ultimi venticinque anni di guerre.
Eppure, una specifica parte del partito repubblicano statunitense, confluita poi in parte nel pensiero neoconservatore, non ha mai mancato di sottolineare le proprie riserve e critiche nei confronti del sistema onusiano. Ben prima dell’11 settembre 2001. Da allora a oggi, una buona parte dei politici statunitensi ha perso ogni tipo di fiducia nell’ONU, vista come un vecchio carrozzone burocratico in grado solo di umiliare gli Stati Uniti e mettergli i bastoni tra le ruote. L’insofferenza statunitense riguardo alla Carta delle Nazioni Unite e quindi al concetto di multilateralismo, considera un’assurdità che gli Stati Uniti debbano rapportarsi come pari nei confronti di Paesi giudicati molto meno rilevanti nello scenario internazionale o Paesi dove governano dittatori come ad esempio la Corea del Nord. In quest’ottica, una visione multilaterale del mondo è considerata inutile e persino dannosa per la difesa degli interessi vitali degli Stati Uniti che si considerano un Paese unico, diverso e questa eccezionalità si ritrova nella presunta possibilità americana di sottrarsi al corso della storia a cui, invece, tutti gli altri Paesi andrebbero incontro.
Dal canto loro, le Nazioni Unite e soprattutto gli Organi giurisdizionali competenti si trovano di fronte a un modello di impunità e di sottrazione dalla giurisdizione internazionale garantito dallo stesso sistema internazionale, basato su alcuni meccanismi che lo rendono potenzialmente inerte, paralizzato e difficile da non essere ritenuto come valido garante della pace solo per il cosiddetto nord globale: tra tutti il potere di veto dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza, o la possibilità che tre di loro, Stati Uniti, Russia, Cina, più Israele non riconoscano la giurisdizione obbligatoria della Corte Internazionale di Giustizia.
L’efficacia del diritto internazionale dipende dalla volontà politica di porlo in essere, di porre gli organismi internazionali al di sopra di ciascuna sovranità. Questa definizione che lascia un po’ perplessi fin da quando la si apprende durante le prime lezioni di diritto internazionale, anche se facile da tacciare come ingenua e ottimista, è più che mai un monito urgente: una società che decide di svincolarsi dalla forza della legge, è una società pronta a vincolarsi a quella della forza.
Che cos’è il “modello Albania”
Alberto Pedrielli, direttore
Il “modello Albania” è già riuscito a guadagnarsi dei sostenitori, tra cui la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Tuttavia, il sistema di deportazione inaugurato dal governo Meloni nel giro di una settimana ha fatto registrare ben più di una criticità. Rilevata non solo dalle forze di opposizione, ma dalla magistratura e dalle organizzazioni della società civile.
La breve storia del “modello Albania” si inserisce quindi in una spaccatura di lungo corso e sempre più profonda sul tema. Tra quanti, anche a Bruxelles, guardano con favore a un’ulteriore stretta sui flussi migratori, al punto da rafforzare in maniera più o meno consapevole la retorica dell’estrema destra. E quanti, dall’altra parte, vi vedono solo l’ennesima violazione a danno delle persone migranti.