đ Mashrek anno I (o meglio 76):
L'Asia sudoccidentale a un anno dal 7 ottobre 2023 - Estera, Speciale Palestina
âCredere che lâOriente sia stato creato per il solo gusto di esercitare lâimmaginazione, sarebbe alquanto ingenuo, oppure tendenzioso. Il rapporto tra Oriente e Occidente è una questione di potere, di dominio, di varie e complesse forme di egemonia.â - E. Said, âOrientalismoâ (1978).
âDe-escalation through escalationâ fino al baratro: la colpa è di Israele, tutta di Israele, solo di Israele (e degli Usa)
Enrico la Forgia, vicedirettore e responsabile newsletterÂ
A un anno preciso dallâattacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, la spirale di violenza che da quel sabato non ha smesso di crescere ha raggiunto nuovi livelli di follia. La reazione sproporzionata di Israele si è rivelata unâautostrada di orrori che ha portato unâintera Regione sullâorlo della guerra aperta tra Israele e l'Iran. Una guerra (tra Stati quindi, con le proprie dinamiche) potenzialmente lunga, feroce e distruttiva.
Ma come ci siamo arrivati fin qui? La risposta è semplice: Israele.
Nonostante le due potenze regionali abbiano una lunga storia dâinimicizia e rappresentino l'una una minaccia alla sicurezza dellâaltra, non si può fare a meno di notare come lâunica barriera che ci separa dal conflitto, al momento, è lâIran. Scriverlo è effettivamente strano, ma appare chiaro come il cosiddetto âadult in the roomâ, tra i due, sia lâAyatollah e non Netanyahu. Ă proprio Israele, infatti, ad aver condotto i giochi fino a questo crocevia letale.
GiĂ nelle prime settimane che sono seguite al 7 ottobre era facile capire che ai vertici politici e militari di Israele non fregava niente degli ostaggi. Per lo spettro politico israeliano (tutto, nessuno escluso), il 7 ottobre ha rappresentato lâoccasione di perseguire un disegno ben preciso. I livelli di distruzione, la lunga serie di crimini di guerra (di recente Al-Jazeera ha pubblicato un documentario che ne racchiude una - minima - parte), lâuccisione indiscriminata della popolazione civile e il naufragio delle trattative per il cessate il fuoco - quasi sempre dovuto a richieste che Tel Aviv sapeva inaccettabili per Hamas - hanno palesato gli intenti genocidari della leadership israeliana: infliggere ai palestinesi una nuova Nakba ed estendere il proprio regime etnocratico a tutta la Palestina storica.Â
Lo stesso copione dello scontro con Hamas è stato messo in scena in Libano. Lâobiettivo dichiarato - ovvero la distruzione di Hezbollah - ha fatto da cavallo di troia per gli orrori a cui Israele ci ha abituati: la narrazione sugli sfollati nel nord del Paese (anchâesse vittime, ma non un valido casus belli) è servita a legittimare i raid aerei condotti in diverse aree del Paese, compresa la capitale Beirut. Le vittime sono giĂ molte. Tra di loro figurano centinaia tra medici, giornalisti (un vecchio vizio delle Idf), bambini, donne. Anche lâidea di decapitare la leadership del Partito di Dio, annullando ogni possibilitĂ di dialogo, lascia ben pochi dubbi sulle intenzioni di Israele: usare la violenza a scapito delle trattative per assestare un duro colpo, forse letale, ad Hezbollah, anche al costo di rischiare dâimpantanarsi in un conflitto prolungato in Libano.
Dal 7 ottobre 2023, Israele ha condotto raid in ben cinque Paesi (Palestina, Libano, Siria, Yemen, Iran), prendendo di mira ripetutamente, tra gli altri, anche gli operatori umanitari dellâOrganizzazione delle Nazioni Unite. Questâultima, è stata screditata e delegittimata da Israele in piĂš occasioni, fino alla recente scelta di dichiarare Antonio Guterres, persona non grata. Un tale sprezzo del diritto internazionale è reso possibile dal sostegno incondizionato di cui gode Israele, in particolare da parte degli Stati Uniti.
Se inizialmente qualcuno poteva pure credere alla favola di un Biden âprivatamente infuriato con Netanyahuâ, le ultime settimane hanno reso piĂš chiari gli obiettivi (e i mezzi con cui raggiungerli) degli Stati Uniti: una Regione nuova, âpacificataâ, assoggettata agli interessi occidentali, da modellare il piĂš rapidamente possibile col conflitto piuttosto che con la diplomazia, approfittando dellâattuale superioritĂ tecnologica e militare. Se da un lato, infatti, lâIran ha reagito allâuccisione dei propri alleati e vertici militari, al bombardamento delle proprie sedi diplomatiche e alla violazione della propria sovranitĂ territoriale con attacchi telefonati e scenici seguiti da messaggi di de-escalation; dallâaltro gli Stati Uniti non fanno altro che garantire a Israele ogni tipo di sostegno - diplomatico, materiale, militare - nel caso di rappresaglie. Israele sta quindi conducendo (anche) una guerra per procura in nome degli interessi di Washington. Il 7 ottobre 2023 ha rappresentato, da questo punto di vista, lâoccasione perfetta per ridimensionare le aspirazioni regionali di Teheran: uno scontro âdi civiltĂ â le cui vittime civili sono giustificate dallâattacco di Hamas e da un fine piĂš grande, ovvero quello di un mondo senza Repubblica islamica.
De-escalation through escalation. Nello scenario di un sempre piĂš probabile attacco israeliano, se Teheran decidesse di non reagire, condannerebbe la propria rete di alleanze regionali alla distruzione. Se invece decidesse di rispondere colpo su colpo a Israele, si troverebbe nella difficile posizione di contrattaccare senza fornire pretesti per unâulteriore escalation. In entrambi i casi, sarebbero USA e Israele a esercitare un certo grado di controllo sulla situazione, stabilendo di conseguenza (cosĂŹ come hanno fatto fino ad ora) il ritmo del confronto.Â
Ragionando in questi termini, nel contesto globale di smantellamento dellâordine giuridico internazionale e tentata sovversione degli equilibri tra potenze, appaiono evidenti le responsabilitĂ di una fazione e dellâaltra, e diviene piĂš chiaro come il 7 ottobre sia divenuto nel tempo una valida scusa per procedere da un lato al disegno coloniale israeliano, dallâaltro alla trasformazione coatta degli equilibri della Regione. Due parti di uno stesso piano in cui Israele e Stati Uniti sembrano disposti a tutto pur di perseguire i propri interessi.
A un anno dal 7 ottobre 2023 abbiamo deciso di rilanciare Estera con un numero dedicato interamente al Mashrek (âlevanteâ, âluogo dellâalbaâ, in arabo) e a come è stato impattato da un anno di guerra e massacri. Seguendo lo spirito stesso di Estera, ci sembrava doveroso provare ad approfondire ulteriormente il lavoro che potete trovare sul nostro giornale quotidianamente.Â
â ď¸ Da domenica 20 ottobre Estera riprenderĂ la solita programmazione (un numero ogni due settimane).
Le tappe del numero:
đ˛ Non sarebbe possibile iniziare uno Speciale di Estera dedicato al 7 ottobre 2023 senza parlare di Libano. Manuel Mezzadra, autore della redazione MENA, apre questa newsletter con un articolo dedicato allâinvasione israeliana del Libano, ai suoi obiettivi e precedenti storici.
đĽ Dopo unâinfarinatura generale è sempre bene approfondire. Il racconto della guerra in Libano prosegue con una lunga analisi, sempre di Manuel, di Hezbollah, della sua natura, della sua storia, dei suoi legami con lâIran. Un contributo necessario se si vuole comprendere meglio Hezbollah e il suo ruolo nella societĂ libanese.
đď¸ Due pesi e due misure nel mondo dellâinformazione. Chiude la sezione dedicata al Libano Antonio Panzone, autore redazione MENA, con una riflessione sul ruolo dei media e della loro narrazione in tempi di guerra. Unâanalisi che parte dal caso dellâinvasione del Libano ma che si allarga a innumerevoli tematiche.
đ Nella narrazione e nelle analisi degli eventi in Asia sudoccidentale (o Medio Oriente) la religione è una lente abusata. La caporedattrice della redazione MENA, Viola Pacini, analizza la tendenza orientalista ed eurocentrica di ridurre tutto ciò che sta accadendo nella regione a uno âscontro religiosoâ.
đ Chiude questo numero di Estera la penna di Viola, che prosegue la propria analisi con un contributo che ribadisce e ricorda la natura delle politiche portate avanti da Israele, recentemente come negli ultimi 76 anni. Un progetto a lungo termine.
Il presente che riecheggia il passato: lâespansione del conflitto in Libano
Manuel Mezzadra, autore MENA
Il conflitto a Gaza si è espanso, come temuto da mesi, ma l'estensione della guerra ha superato ogni aspettativa, portando il Libano nuovamente al centro di uno scenario di violenza regionale. La potenza e lâaggressivitĂ con cui il conflitto ha travolto il Libano non si vedevano dai tempi della guerra civile, uno spartiacque nella storia contemporanea del Paese. Lâattuale escalation, con bombardamenti incessanti nel sud del Libano, a Beirut, nella valle della Beqaa e in numerose altre localitĂ , ha giĂ provocato, in appena una settimana, piĂš vittime, feriti e sfollati rispetto alla guerra con Israele del 2006, che si protrasse per circa 30 giorni e segnò un altro momento cruciale per il Libano.
Israele ha giustificato i suoi attacchi con lâobiettivo dichiarato di distruggere la capacitĂ di Hezbollah e consentire il ritorno nelle proprie case ai circa 68.000 sfollati interni israeliani (giĂ prima dei recenti attacchi, il Libano contava piĂš di 110.000 sfollati). Dal giorno successivo allâattacco del 7 ottobre 2023, Hezbollah ha infatti iniziato a colpire il nord di Israele, in risposta agli intensi bombardamenti su Gaza, in segno della storica solidarietĂ con il popolo palestinese. Per mesi, Israele e Hezbollah si sono confrontati in uno scontro aperto fatto di lanci di razzi, droni e attacchi quasi quotidiani. Sebbene questi episodi abbiano intensificato il conflitto e creato un ingente numero di sfollati da entrambe le parti, Hezbollah e Israele hanno operato entro regole di ingaggio ormai familiari e consolidate da tempo.
Le ultime settimane di settembre hanno visto però un rapido intensificarsi degli scontri. Il 17 e il 18 settembre Israele ha colpito il Libano con un attacco terroristico senza precedenti, facendo esplodere migliaia di cerca persone e walkie-talkie in tutto il Paese, uccidendo qualche decina di persone e ferendone piĂš di 3.000 con lâintento dichiarato di colpire il sistema di comunicazioni di Hezbollah. Nei giorni successivi, dal 20 settembre, Israele ha intensificato i bombardamenti su Beirut e diverse aree del sud con attacchi regolari e massicci, arrivando ad uccidere il Segretario Generale di Hezbollah Hassan Nasrallah, e molte altre figure di alto rango del movimento. L'escalation ha raggiunto un nuovo picco tra il 30 settembre e il 1 ottobre, quando Israele ha annunciato di aver iniziato alcune incursioni âlimitateâ e mirate in territorio libanese, i cui obiettivi sono ancora da chiarire e gli sviluppi in corso.
I piĂš attenti riconosceranno un modus operandi giĂ noto nel contesto libanese, anche se oggi portato avanti con un'intensitĂ senza precedenti.Â
Fin dagli anni '70, ben prima della nascita di Hezbollah nel 1982, Israele ha condotto numerose operazioni a breve termine sul territorio libanese, culminate nell'Operazione Litani del marzo 1978. L'obiettivo dichiarato di questa operazione era quello di creare una zona militarmente occupata sotto il controllo d'Israele. Tuttavia, quella che doveva essere un'operazione temporanea si trasformò in un'occupazione prolungata che durò fino al 2000. Ă in questo contesto che, a partire dal 1982, Hezbollah cominciò a perseguire uno dei suoi principali obiettivi: la resistenza (muqawama) contro il piĂš ampio progetto regionale che, iniziato con lâoccupazione britannica, fu successivamente portato avanti dagli Stati Uniti ed è oggi incarnato dallo Stato di Israele. Oggi, mutatis mutandis, Israele sembra perseguire un obiettivo simile: stabilire una "fascia di sicurezza" lungo la linea di demarcazione (poichĂŠ Libano e Israele non condividono un confine politico riconosciuto a livello internazionale) che si estenderebbe fino al fiume Litani, coprendo circa 40 chilometri. Una fascia di tale estensione da contestualizzare però allâinterno di un Paese, il Libano, grande quanto lâAbruzzo.
Sorge quindi spontanea la domanda su quali siano i reali obiettivi degli attacchi e incursioni israeliani, certamente differenti da quelli portati avanti a Gaza, ma che formalmente si basano sugli stessi principi: lâeradicazione di unâentitĂ nemica e pericolosa (Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano) e la volontĂ di ristabilire la sicurezza dello Stato di Israele. Tuttavia, gli ultimi dodici mesi ci hanno abituati ad una narrazione spesso semplicistica, che tende a etichettare come terroristi e cattivi gli uni, ed eleva a paladini della democrazia e del bene gli altri. Principi che vacillano di fronte alla liceitĂ degli obiettivi israeliani, soprattutto quando, per perseguirli, viene portato avanti un genocidio che ha ucciso ad oggi piĂš di 42.000 persone, raso al suolo o reso inagibile circa lâ80% delle infrastrutture di Gaza e colpito diversi altri Paesi fra cui Libano, Siria, Iran e Yemen. Anche nel caso dellâescalation in Libano, si fa riferimento allo stesso copione: una volta identificato il nemico (Hezbollah), lâobiettivo viene perseguito in barba a qualsiasi regola del diritto bellico e internazionale. La neutralizzazione di Hezbollah e la sicurezza di Israele possono essere dunque considerati obiettivi coerenti e proporzionati con quanto Israele sta facendo in Libano?
Chi è il nemico? La retorica occidentale su Hezbollah e il Libano in fiamme
Manuel Mezzadra, autore MENA
Come ricorda Lorenzo Trombetta, si deve partire dal presupposto che Hezbollah non sia una forza militare sovrapposta o imposta a un determinato territorio. In diverse aree del Libano Hezbollah è lâespressione stessa della popolazione, e non può essere eradicato con la forza bruta a meno di non voler sterminare interamente una fetta di popolazione libanese, o di proporre un modello sociale, politico, economico e culturale completamente alternativo a quello proposto da Hezbollah negli ultimi decenni. Anche lâassunto secondo cui una parte di popolazione libanese (o secondo alcuni politici israeliani tutti i libanesi) siano conniventi o in qualche modo collegati a Hezbollah, e che tutti i seguaci del Partito di Dio siano terroristi, non può che offrire una visione distorta del panorama socio-politico libanese.
Ă giĂ a partire dalla fine degli anni â80 che Hezbollah inizia a prefiggersi altri obiettivi oltre alla resistenza contro Israele. Il Partito di Dio inizia a pensarsi come unâorganizzazione dallâorizzonte piĂš ampio, attenta alle necessitĂ pratiche della popolazione libanese, a cominciare soprattutto dai bisogni di natura sociale. La politologa e urbanista libanese Mona Harb propone una categorizzazione in tre gruppi delle organizzazioni di assistenza sociale ed erogatrici di servizi che sono spesso, erroneamente, ricondotte ad Hezbollah. Le prime sono associazioni direttamente finanziate dallâIran e indipendenti dal Partito di Dio. Esistono poi associazioni create direttamente da Hezbollah che ricadono sotto alla sua direzione dedicata ai servizi sociali. Infine, vi sono organizzazioni che condividono la linea politica di Hezbollah, ma risultano essere totalmente indipendenti dal punto di vista finanziario e gestionale. Ciò che va sottolineato è che se da una parte non stupisce il coinvolgimento iraniano, spesso visto come la mente che tira le fila dietro a ogni azione di Hezbollah, potrebbe invece sorprendere la totale assenza dello Stato libanese in molte delle aree di influenza del Partito di Dio. Ciò accade un poâ per negligenza stessa dello Stato, ma spesso anche per chiare volontĂ politiche di mantenere in condizioni indigenti intere fasce della popolazione a discapito di altre. Questo è soprattutto rilevante per le comunitĂ sciite del Libano, che storicamente hanno sempre goduto di meno opportunitĂ e possibilitĂ di sviluppo economico.
Ne risulta che, negli anni â80 come oggi, in molti casi gli unici servizi sociali, economici, sanitari e educativi disponibili in diverse aree del Paese siano quelli forniti dalle organizzazioni iraniane e del Partito di Dio. Inoltre, queste organizzazioni, in particolare quelle sotto la gestione diretta di Hezbollah, giocarono un ruolo fondamentale nelle fasi di ricostruzione del Paese post guerra civile e post guerra del 2006. Un ruolo controverso e non esente da critiche. Va chiarito però come lo sviluppo di organizzazioni erogatrici di servizi non sia prerogativa di Hezbollah. Nellâintero panorama libanese, a riprova della marcata divisione settaria della societĂ , i diversi gruppi sociali hanno da sempre sviluppato sistemi paralleli a quello statale, spesso corrotto e inefficiente, per sopperire alla mancanza di servizi in varie zone del Paese.Â
Ă però interessante notare come Hezbollah abbia fin da subito puntato allo sviluppo ed erogazione di tali servizi per lâintera popolazione libanese, e non soltanto per le comunitĂ sciite.
Un altro punto di svolta per la storia del Partito di Dio fu il suo ingresso nel panorama politico libanese, soprattutto a partire dal 1992 con lâuccisione da parte dâIsraele di Abbas al-Mussawi, secondo Segretario Generale di Hezbollah. Fu in questo momento che sotto la guida di Hassan Nasrallah, eletto nuovo Segretario Generale del movimento, Hezbollah riuscĂŹ a farsi strada come attore politico, sviluppando questa nuova anima del gruppo che fino ad allora era stato un movimento militare di resistenza e un attore sociale promotore di welfare.Â
Nasrallah cercò di capitalizzare questa spinta di cambiamento allâinterno del partito soprattutto a partire dal 2000, con quella che la resistenza vedeva come una vera e propria vittoria: aver scacciato lâimponente potenza militare dâIsraele dal Libano dopo diciotto anni di occupazione. Nasrallah e Hezbollah raggiunsero livelli di popolaritĂ senza precedenti, che subirono un arresto solo dopo alla guerra del 2006 e, in tempi recenti, con il supporto di Hezbollah al regime di Bashir al-Assad in Siria durante la guerra siriana. Dopo la ritirata israeliana, Nasrallah cercò di rassicurare le istituzioni statali respingendo le accuse di coloro che tacciavano il Partito di essere antisistema e di non voler collaborare con le istituzioni. Successivamente intraprese un processo di âlibanesizzazioneâ del partito, cercando di rassicurare la popolazione sul carattere nazionale del movimento (e dunque non esclusivamente sciita) e proponendo una visione politica piĂš ampia, che includeva la lotta per la giustizia sociale e l'autodeterminazione libanese.
Va qui puntualizzato un tema ricorrente nella narrazione occidentale del Partito di Dio (lo stesso si potrebbe dire degli altri attori del cosiddetto âasse della resistenzaâ che comprende Hamas a Gaza, gli Houthi in Yemen e molti altri gruppi): l'idea che Hezbollah sia completamente subordinato all'Iran. Sebbene l'influenza di Tehran sia indiscutibile, con un supporto economico, militare e politico fondamentale per il Partito di Dio, Hezbollah ha dimostrato nel corso della sua storia di agire come un'entitĂ politica indipendente, con obiettivi specifici nel contesto libanese e regionale. La sua missione originaria, la resistenza contro l'occupazione israeliana e le ingerenze straniere, si è sviluppata ben oltre il semplice supporto a una visione pan-islamista o all'agenda iraniana. Hezbollah è profondamente radicato nella societĂ libanese, dove ha costruito una vasta rete di assistenza sociale, garantendo servizi laddove lo Stato libanese è assente o inefficiente. Questo gli conferisce una legittimitĂ e un sostegno popolare che vanno oltre le dinamiche internazionali, rendendolo un attore chiave in Libano, capace di dettare la propria agenda politica.
A riprova della âlibanesizzazioneâ di Hezbollah, è utile decostruire un altro assunto comune della prospettiva occidentale e orientalista: la comune etichetta di Hezbollah come un gruppo terroristico o una rete di kamikaze, spesso paragonato a organizzazioni come Al-Qaeda o ISIS. A differenza di questi gruppi, che promuovono un'ideologia islamista transnazionale e mirano alla creazione di un califfato globale, Hezbollah ha radici profondamente locali e agisce principalmente all'interno del contesto libanese. Sebbene Hezbollah abbia impiegato attentati suicidi durante il suo conflitto contro le truppe israeliane e le milizie collaborazioniste negli anni '80 e '90, l'uso del martirio è stato limitato a pochi casi specifici e non rappresenta la strategia primaria del movimento. Invece, Hezbollah ha privilegiato un approccio piĂš complesso e articolato rispetto alla violenza indiscriminata promossa da altri gruppi di matrice terroristica. Il Partito di Dio non solo ha costruito una solida rete di servizi sociali e di welfare, ma ha anche partecipato attivamente al sistema politico del Paese, cosa che lo distingue nettamente dai gruppi estremisti che rifiutano il sistema statale esistente.
Hezbollah è dunque una realtĂ profondamente radicata sul territorio locale da rendere estremamente complesso ogni progetto di sua estirpazione attraverso forme diverse di pressione coercitiva o tramite interventi militari, per quanto ripetuti e devastanti questi possano essere o siano storicamente stati. La vasta, efficiente e solidale rete assistenzialista di Hezbollah ha creato un legame profondo con una parte della popolazione libanese, che si estende ben oltre lâaspetto militare, rafforzando il movimento sul piano sociale e politico. Questo radicamento rende impossibile estirpare Hezbollah esclusivamente tramite attacchi militari o pressioni esterne. Anche la recente uccisione del leader Hassan Nasrallah il 27 settembre da parte di Israele, sebbene possa sembrare un colpo devastante, potrebbe non essere sufficiente a indebolire il movimento nel lungo termine. La storia dimostra che, come avvenuto con lâassassinio di Abbas al-Musawi nel 1992, Hezbollah ha sempre saputo riorganizzarsi e rafforzarsi in seguito a perdite significative. La promessa israeliana di una maggiore sicurezza attraverso la neutralizzazione della leadership di Hezbollah è rischiosa e potrebbe rivelarsi controproducente e poco sostenibile. Inoltre, gli attacchi indiscriminati di Israele attualmente in corso non colpiscono soltanto la leadership o lâala militare di Hezbollah, ma danneggiano lâintera popolazione libanese, allargando il conflitto ben oltre il movimento. Questo dimostra che lâobiettivo dichiarato di Israele, ossia neutralizzare Hezbollah, è molto piĂš complesso e rischia di alimentare ulteriormente lâinstabilitĂ nella regione. Israele sembra sottovalutare la natura ideologica e sociale di Hezbollah e la difficoltĂ di eliminare unâidea attraverso la forza bruta. Ma dâaltra parte lo stesso si potrebbe dire dellâapproccio di Israele alla distruzione di Hamas.
In conclusione, Hezbollah si configura come un attore poliforme e complesso, con un ruolo che spazia dalla resistenza militare alla gestione di servizi sociali essenziali. Tuttavia, negli ultimi anni, si è anche macchiato di gravi crimini, attività terroristiche e traffici illegali, che hanno minato la sua immagine internazionale e il consenso interno. Inoltre, Hezbollah è riuscito a inserirsi nelle pieghe di uno Stato fragile, sfruttando la debolezza istituzionale per ottenere profitti tramite mercati illeciti e consolidare il proprio potere politico. Non è quindi facile tracciare una linea netta tra buoni e cattivi in questo contesto. Entrambe le parti in conflitto, Israele e Hezbollah, sono responsabili di violenze, abusi e un certo grado di propaganda. Una narrativa semplicistica non può cogliere la complessità storica e socio-politica della regione. Solo comprendendo la profondità di queste dinamiche si può tentare di andare oltre una visione manichea e stereotipata del conflitto.
Come orientare il pensiero pubblico verso il genocidio giustificato
Antonio Panzone, autore MENA
I meccanismi perversi attraverso i quali lâinformazione orienta il pensiero pubblico sono davanti agli occhi di tutti, anche se nessuno sembra davvero capire che non esistono vittime di Serie A, di Serie B e di Serie C.Â
Questi meccanismi fanno da energia motore al doppiopesismo esercitato dal potente Occidente nei confronti di violazioni del diritto internazionale e di numerosi crimini di guerra, tuttavia trattate in maniera totalmente distinta: le guerre di Russia ed Israele. Il fallimento del sistema internazionale odierno risiede proprio nel diverso trattamento riservato a queste due gravi situazioni, due pesi e due misure che sembrano essere alla base delle ormai fragili fondamenta del sistema-mondo dei nostri giorni. Quando Vladimir Putin, con toni da condottiero medievale e con ragioni alquanto discutibili ha invaso lâUcraina, la comunitĂ internazionale ha subito condannato il tutto con forza e veemenza, rispondendo con forniture dâarmi allâUcraina (Paese offeso) e sanzioni economiche che avrebbero dovuto far storcere il naso al Cremlino.Â
Ora, con lâinvasione del Libano da parte di Tel Aviv, la musica sembra essere totalmente diversa. Il Capo Occidente la definisce âunâoperazione limitataâ, âunâincursioneâ, minimizzando tutti i passi in avanti fatti (o che si sarebbero dovuti fare, a tal punto) in materia di diritto internazionale: il Libano non è forse uno Stato sovrano come lâUcraina? Il diritto internazionale non è stato concepito come egualitario e mezzo di giudizio tra pari? Per ciò che sembra, non è affatto cosĂŹ: se lâobiettivo era isolare la Russia e punirla per la violazione del principio di territorialitĂ , perchĂŠ mai continuare a intrattenere rapporti commerciali con un Paese che oltre ad aver invaso uno Stato sovrano, il Libano, continua a perpetrare crimini di guerra genocidari - con armi fornite proprio dallâOccidente - in aperta violazione di ogni norma e convenzione internazionale?Â
In unâepoca in cui ognuno ha modo di pigiare un tasto di uno smartphone e informarsi sullâattualitĂ comodamente dal divano, la risposta potrebbe giungere dal mondo dellâinformazione; peccato che, anche loro, contribuiscano a orientare lâopinione pubblica in modo parziale. Basti dare unâocchiata ai titoli dei quotidiani, o alle âgrandi firmeâ del giornalismo italiano, per capire che i palestinesi che subiscono i crimini perpetrati da Israele sono âsoloâ vittime di Serie B e di Serie C. Se guardiamo agli articoli scritti da Repubblica e Corriere sulla strage di Majdal Shams da parte di Hezbollah, invece, notiamo come ci sia spazio per una disperazione per le âvittimeâ (il virgolettato è dâobbligo) israeliane, tantâè che si parla di strazio, di strage e si pubblicano le foto dei deceduti.Â
Al contrario, non compare in nessuna parte della web homepage del Corriere, lâattacco israeliano che ha ucciso 30 persone a Gaza, che câè invece nellâedizione cartacea. Come se le vittime palestinesi non meritassero visibilitĂ .
Su Repubblica troviamo un articolo che ci dice: Gaza, attacco su una scuola a Deir al-Balah. Hamas â30 mortiâ. In questo caso, il numero delle vittime (di cui non viene indicata lâetĂ ) è tra virgolette, dato che Hamas non è da considerare come fonte attendibile e le vittime diventano semplici âmortiâ. Il raid israeliano è un generico âattaccoâ.
Sempre sul Corriere un ultimo esempio: in merito al massacro di Khan Younis, il giornale ha pubblicato on line una nota dellâIDF: âUccisi diversi terroristi nellâoperazione a Khan Younisâ. Trasformando tutte le vittime in âterroristiâ, viene fatto in modo di giustificare il massacro; poco importa se, tra le vittime, ci sono bambini e civili.
La questione religiosa è davvero cosÏ importante?
Viola Pacini, caporedattrice MENA
Nel conflitto tra Israele e i Paesi circostanti viene spesso chiamato in causa lâaspetto religioso, tanto da relegare la questione a un mero scontro tra ebrei e musulmani. I secondi sono quelli maggiormente colpiti da tale generalizzazione, complici lâereditĂ dellâorientalismo e quel pizzico di islamofobia che dal 2001 non manca mai.Â
Lâimmagine dei musulmani come una massa informe che segue ciecamente i dettami del Corano diffusa dai mass media e persino dal mondo accademico è stata denunciata da diversi studiosi, come il tanzaniano Abdul Sheriff, lâiraniana Behnaz Mirzai e il neozelandese Michael Pearson. Lâunica differenziazione degna di nota che alcuni divulgatori si sono degnati di imparare è stata quella tra sunniti e sciiti. Questa divisione elementare viene presentata come un pilastro per comprendere il mondo musulmano, che in realtà è molto piĂš complesso. Al di lĂ delle differenze interne alle varie correnti, ciascuna area ha le proprie specificitĂ politiche, sociali ed economiche, le quali hanno diversificato il modo in cui la religione è percepita e vissuta.Â
In A History of Slavery and Emancipation in Iran, Behnaz Mirzai sintetizza perfettamente il problema: si confonde la religione con la societĂ allâinterno della quale è praticata.
Tuttavia, queste sottigliezze non interessano; ecco quindi che i musulmani di tutto il mondo sono rappresentati come una massa omogenea o, al massimo, divisi in due fazioni perennemente in conflitto tra loro. Eppure il genocidio in corso a Gaza dovrebbe aver dimostrato ampiamente il contrario: i Paesi e i gruppi che hanno dimostrato maggiore solidarietĂ con i palestinesi (per la maggior parte sunniti), ovvero Hezbollah, gli Houthi e lâIran, sono sciiti. Tutti e tre fanno senza dubbio uso del tema religioso; ma quanto è effettivamente importante lâIslam (generico) nella resistenza contro Israele?
Sicuramente la religione è una parte fondamentale dellâidentitĂ dei palestinesi e dei loro alleati. Niente di strano, tutte le comunitĂ hanno bisogno di elementi comuni per costruire lâimmagine di sĂŠ stessi o connettersi con gruppi affini. Inoltre, soprattutto negli ex territori ottomani, la confessione religiosa ha spesso finito con il sovrapporsi alla classe sociale, contribuendo a rafforzare lâimmagine identitaria delle diverse componenti della comunitĂ .
Il potere della religione di radunare e fomentare combattenti contro un nemico che non segue quella determinata fede è stato comprovato piĂš volte nel corso della storia; lâaccento posto da gruppi come Hamas o Hezbollah sullâIslam non è che unâespressione di questa forza. Inoltre, la religione è anche un rifugio per le vittime di una violenza dalla quale non possono fuggire: in molti video che circolano su internet è possibile vedere i sopravvissuti alle stragi in corso a Gaza invocare Dio e affermare di abbandonarsi alla sua volontĂ e misericordia. Del resto, cosa è rimasto ai gazawi se non sperare in una potenza ultraterrena?Â
In sostanza, per quanto si possa preferire una società piÚ laica, i palestinesi e coloro che li sostengono fanno un uso della religione e della retorica a essa collegata che non è specifico dei musulmani, ma al contrario è stato applicato anche in altre società e, dato il contesto, non è assurdo.
Nonostante lâIslam sia un elemento importante, il suo ruolo come chiave di lettura imprescindibile per comprendere conflitti e rapporti tra Stati sembra essere piĂš una fissazione di giornalisti e analisti che si sono limitati a leggere un riassunto dei principi della religione prima di scrivere.
Questa rappresentazione dei musulmani ha però anche una funziona strategica per le retoriche eurocentriche e atlantiste: rappresentare i seguaci dellâIslam come un ammasso di creduloni che si fanno la guerra a vicenda per qualche divergenza confessionale o attaccano chiunque non segua il loro credo alimenta lâidea, vecchia di secoli, di un ânoiâ razionale e progressista e di un âloroâ barbarico e irrazionale. Rappresentare problematiche complesse in un maniera cosĂŹ semplicistica, che ignora ogni coinvolgimento storico dellâOccidente nel mondo musulmano, è rassicurante: noi non abbiamo colpe, sono loro a essere naturalmente violenti a causa della loro religione.Â
Si tratta semplicemente di un altro round del processo di deumanizzazione dellâaltro, di cui abbiamo giĂ avuto esperienza dopo lâattentato dellâ11 settembre 2001, quando âil musulmanoâ era la bestia assetata di sangue che, per citare una certa persona fin troppo osannata per aver vomitato odio e islamofobia, voleva mettere in atto una âcrociata alla rovesciaâ. Adesso lâobiettivo di questa furia cieca sarebbe Israele, cosĂŹ simile allâOccidente, che avrebbe âil diritto di difendersiâ da questi musulmani cattivi.
SÏ, è un genocidio. No, non è iniziato tutto il 7 ottobre
Viola Pacini, caporedattrice MENA
âE allora Hamas?â potrebbe diventare un meme al pari di âE allora le foibe?â, parodia del goffo tentativo di delegittimare alcune fazioni che combatterono durante la Seconda guerra mondiale in Italia utilizzando come argomentazione vincente una singola serie di atrocitĂ compiuta. Nel corso di questâultimo anno, Hamas e lâattacco del 7 ottobre sono diventati per i filo-sionisti una sorta di foiba allâinterno della quale gettare tutte le colpe della guerra, della violenza e degli oltre 42.300 palestinesi uccisi.Â
Al pari di âE allora le foibe?â, questa rappresentazione nasce da una selezione dei fatti che mette in risalto solo una manciata di eventi distaccati dal loro contesto. Non si tratta però di una specificitĂ dei sostenitori di Israele o di coloro che vogliono minimizzarne la furia genocidaria dietro al âdiritto a difendersiâ. Articoli giornalistici e post sui social network sono diventati un mezzo per acchiappare âmi piaceâ e spingere gli utenti a commentare. Una delle tecniche piĂš efficaci per sollecitare queste interazioni è il cosiddetto rage bait, un contenuto confezionato con lâintento di suscitare rabbia o sgomento, a scapito dellâinformazione. Dâaltro canto, la maggior parte delle analisi (che tentano di essere) piĂš approfondite rimane ancorata al presente, senza collocare palestinesi e israeliani in un contesto piĂš ampio; di conseguenza, tutti gli attori sul campo sono sospesi in un vuoto temporale, nel quale il passato non ha alcun effetto. Con questa prospettiva si possono generare solo analisi grossolane e piene di semplificazioni.
Il genocidio che da un anno si sta scatenando su Gaza non è semplicemente espressione della follia di un ultranazionalista che vuole fare la guerra a destra e a manca per sviare lâattenzione dei cittadini e non finire a processo. Non è neppure la reazione esagerata di uno Stato militarmente potente allâattacco di una milizia. I tentativi di ripulire la Palestina storica dagli arabi con qualsiasi mezzo e scusa hanno fatto parte della storia israeliana fin da prima della proclamazione ufficiale dello Stato.
La persona piĂš competente per spiegare ciò è probabilmente Ilan PappĂŠ, storico ebreo israeliano antisionista attualmente docente presso lâUniversitĂ di Exeter. In âLa pulizia etnica della Palestinaâ, il professore ricostruisce gli eventi del 1948 e in particolare lâapplicazione del Piano Dalet, una serie di operazioni contro villaggi e quartieri urbani abitati da arabi. Con la Risoluzione 181 del 29 novembre 1947 le Nazioni Unite assegnarono al futuro Stato israeliano circa metĂ del territorio della Palestina storica, ma gli ebrei erano ancora una minoranza.Â
Il progetto sionista prevedeva (e prevede ancora) un Paese omogeneo e monoetnico. Per raggiungere tale scopo, David Ben Gurion e i suoi complici inviarono alcuni gruppi paramilitari clandestini contro le aree abitate dai palestinesi, al fine di eliminarne il piĂš possibile o costringerli alla fuga. Il famoso massacro di Deir Yassin del 9 aprile 1948 rientra tra queste operazioni. I battaglioni irregolari che parteciparono a questa e altre stragi, come HaganĂ , Irgun e la banda Stern, sarebbero poi stati integrati nellâesercito regolare israeliano. Tra gli indigeni arabi e i sionisti appena arrivati non correva buon sangue giĂ dallâinizio del Novecento, quando divenne chiaro che gli ebrei europei si stavano riversando in Palestina con lâintento di appropriarsene. Le tensioni e le violenze perpetuate da ambo le parti furono un ottimo casus belli per il Piano Dalet. Nella prefazione del suo libro, PappĂŠ afferma: ÂŤGli scontri con le milizie palestinesi locali fornirono il contesto e il pretesto perfetti per realizzare la visione ideologica di una Palestina etnicamente ripulitaÂť.Â
76 anni dopo il Piano Dalet, questa frase risulta sinistramente familiare.Â